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Acqua: l’oro blu dei potenti

di Alessia De Rosa


(fonte immagine)

Ciò che tutti sanno è che l’acqua non è una risorsa inesauribile. Ciò che molti ignorano è che l’umanità rischia di rimanerne a secco entro breve: nel 2020 la crisi idrica colpirà circa 3 miliardi di persone.

È in questo scenario poco rassicurante che comincia la corsa affannata alla conquista: alcune grandi aziende stanno da tempo sfruttando la situazione per trasformare questa risorsa in bene commerciabile. L’acqua come business, come il nuovo oro del futuro, come merce da vendere sul mercato o da quotare in borsa…l’acqua come il petrolio insomma. Così, quello che è sempre stato un bene universale diventa «universalmente» privato, il fiore all’occhiello delle grandi multinazionali che, ormai in molti paesi, gestiscono il controllo delle acque potabili.

La privatizzazione dell’approvvigionamento idrico comincia in Inghilterra nel 1989 sotto il governo di Margaret Thatcher; nei dieci anni successivi, le nuove compagnie idriche hanno ricavato profitti per oltre 10 miliardi di sterline. La forma di privatizzazione dell’acqua maggiormente utilizzata è però quella alla francese fondata sul sistema della «gestione delegata» del servizio pubblico a compagnie private. Oggi le principali multinazionali dell’acqua sono la Ondeo (ex Suez-Lyonnais) e la Veolia (ex Vivendi Universal, gigante nel settore dei media e della comunicazione). Queste due aziende, entrambi francesi, detengono circa il 70% del mercato mondiale dell’acqua.

Come tutte le merci, anche l’acqua ha un proprio prezzo e un valore stabiliti dalla domanda e dall’offerta: in condizioni di scarsità di acqua potabile aumenta la domanda e quindi aumenta il prezzo del bene. Sulla base di questa politica dei prezzi, in passato i francesi si sono visti aumentare le loro bollette del 150%, mentre in Inghilterra l’aumento è stato del 450%, facendo crescere i profitti delle compagnie inglesi del 692%. Paradossalmente, l’aumento delle bollette è affiancato da un peggioramento della qualità dell’acqua, tanto che, sempre in Inghilterra, i casi di dissenteria sono diventati sei volte più frequenti. Anche il nostro paese subisce il peso delle grandi multinazionali: la Toscana e il Lazio sono le regioni simbolo della privatizzazione di risorse idriche. Quando nel 2004 la Veolia assume il controllo delle acque di Aprilia, si denunciano, dopo solo un anno, rincari fino al 300%, tutto ciò a causa dell’applicazione di nuove tariffe e criteri di calcolo sui consumi. Alcuni articoli locali scrivono di numerose storie come quella di Elena Di Francesco, proprietaria di un bar che, nel giugno del 2005, ha ricevuto una bolletta di quasi 3.000 euro per i consumi annuali del suo locale, mentre con la gestione pubblica passata non aveva mai pagato più di 600 euro.

Come da copione, la situazione dei paesi sottosviluppati è ancor più grave e l’acqua diventa un ulteriore fattore di ingiustizia sociale: un miliardo di persone deve camminare circa tre ore per avere accesso all’acqua potabile, mentre l’acqua contaminata uccide 15 milioni di bambini all’anno. Sulla base delle condizioni climatiche, ambientali, politiche e soprattutto sociali di queste terre, immaginiamo, senza troppa difficoltà, le conseguenze di un aumento della privatizzazione del settore idrico. Molte di esse si sono già manifestate in paesi come Bolivia, Ghana, Argentina, Sudafrica, zone in cui sono scoppiati scioperi e rivolte contro i rincari dei prezzi. Tutto ciò rientra nella sfera dei disordini sociali che vanno a confermare ed aumentare i rischi di una futura guerra: «la guerra dell’acqua».

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