
Intervista a Ivan Manzoni e Gillian Rilley
Parlano i vincitori del Premio internazionale Scritture d’Acqua
di Gaia Gherardi e Alberto Rugolotto
Quest’anno il Premio internazionale Scritture d’Acqua è stato conferito a Gillian Rilley (Gran Bretagna) e Ivan Manzoni (Italia). La premiazione ha avuto luogo il 4 dicembre a Fontanellato.
Ivan Manzoni, danza vitale
Water (on) Fontanellato, per la premiazione di «Scritture d’Acqua». Ma sembra tutto calcolato, tutto a tema: anche il clima ha reso omaggio al fil rouge della serata. Tra ombrelli e degustazioni di capeletti abbiamo intervistato il coreografo Ivan Manzoni, uno dei due vincitori del premio. Ha un cappello per ripararsi dalla pioggia e la sua inseparabile pipa in mano, è sorridente mentre ci racconta i suoi successi.
Ti aspettavi di ricevere, per il tuo spettacolo «WaterWall», un tale successo? Quando hai iniziato pensavi che lo show fosse così facilmente ‘esportabile’ in tutto il mondo?
«Ci ho creduto molto, avevo le idee ben chiare, anche se è importante tenere i piedi per terra. Ho visto altri spettacoli che hanno riscontrato molto successo di pubblico ed ero sicuro che il mio potesse piacere. In tutti i casi non è mai automatico che la gente risponda come vogliamo, ma per fortuna così è stato.»
Hai detto di aver iniziato la tua carriera a 21 anni, piuttosto tardi per inserirsi nel mondo della danza…
«Sì, in effetti sì. Nella danza ci sono dei «canali precostituiti» per cui se vuoi fare il ballerino devi arrivare dal teatro, da altri coreografi, devi aver studiato danza classica in certe scuole per non essere tagliato fuori. Invece non è vero perché fortunatamente oggi ci sono molte contaminazioni nelle arti. »
A che punto consideri la tua carriera e soprattutto come inserisci «WaterWall»? È un punto d’arrivo o di partenza?
«Non saprei. Per il momento sono arrivato qua, ho altre idee e progetti ma bisogna sempre valutare se vale la pena di metterli in cantiere… questo non è un buon periodo per produrre spettacoli nuovi.»
Non esistono spettacoli simili a questo, vero?
«No, ci sono i grandi spettacoli di Las Vegas, ma quelli non hanno un circuito. Nascono lì e lì restano. Spettacoli in cui l’acqua è inserita come lo faccio io non esistono. Volevo fare una cosa mai fatta da nessuno, mettere in scena un’enorme cascata. Molte persone, soprattutto i teatri, erano preoccupati per le difficoltà tecniche che potevano nascere. Ma io ho continuato…»
Com’è nata l’idea?
«Visioni notturne, sono un insonne. Anzi, non è vero che sono insonne… diciamo che recupero di giorno.» (Sorride)
Dove hai studiato danza?
«Ho studiato in Francia con un coreografo che mi ha trasmesso l’amore per la danza energica. Ho fatto anche danza classica, ma non troppo perché mi sentivo a disagio. Non ho studiato molti anni, ma tutte le tecniche che ho appreso sono state in scuole francesi e italiane. Ho iniziato tardi a ballare e ho smesso presto.»
Questo premio vede l’acqua elemento fondamentale, ma prima dicevi di non voler ricercare nel tuo spettacolo delle metafore da ‘imporre’ al pubblico…
«È vero, alcuni trovano dei significati in «WaterWall», delle metafore. Ma è un processo personale che varia da persona a persona. È il pubblico che liberamente interpreta quello che vede. È la stessa cosa per la gestualità: se tu dai una carezza ad una persona non c’è bisogno di spiegarla più di tanto. È gradita punto e basta. Quando ho iniziato anche io, per stare nel mercato della danza, cercavo di essere più ermetico. Mi adeguavo alle tendenze generali, ma non era il mio stile. C’era mancanza di comunicazione. È molto più facile essere drammatico in scena ma in Francia il panorama della danza contemporanea era diverso. E per fortuna io ho appreso da loro.»
Vai spesso a vedere altri spettacoli?
«No, non li vedo mai. Neanche prima perché avevo paura di copiare. Continuavo a cambiare i miei pezzi e non riuscivo più a creare niente. Allora ho deciso di lavorare sempre in modo indipendente.»
C’è un filo conduttore in tutta la tua produzione?
«Sì, gli spettacoli nascono tutti da una grande fisicità, da un impatto forte. Per poter realizzare quello che ho in mente il performer deve essere molto energico. Questo non significa acrobazie continue, ho creato anche lavori unicamente sul movimento, coreografando gesti e non balletti. Basta mettere ordine nei movimenti per creare coreografie. Ho anche coreografato attori che facevano gesti del tutto normali. Ma tutto deve sempre essere di grande impatto. Ricordo di avere visto spettacoli di cui non mi ricordo, a distanza di anni, nulla. Io voglio che il mio lavoro venga ricordato, se piace o non piace mi interessa meno. Come i fatti importanti della vita, che non si scordano mai. Tutte le suggestioni che inserisco negli spettacoli le provo prima io, in prima persona. Le sento internamente, le immagino e poi le metto in scena.»
Gillian Riley, da una passione ne nasce un’altra
di Alberto Rugolotto
Prima ancora a parlare è stata l’altro vincitore del premio, la scrittrice Gillian Riley. Una donna passata quasi per caso dallo studio di filologia e incisioni a quello dell’arte culinaria, in cui la grande pittura sposa cibi e pietanze e nella quale l’acqua è sempre protagonista in zuppe, paste e risi. Tutto grazie all’Italia.
«Durante i miei studi capitavo spesso in Italia con il mio compagno. Andavamo a caccia di iscrizioni politiche, dei papi, degli artisti, in ogni luogo, ad esempio sulle fontane. Ovviamente bisognava anche nutrirsi in questi viaggi, quindi ci fermavamo spesso nelle trattorie, e quelle italiane sono fantastiche. Da lì è scoppiata la mia passione culinaria. Le iscrizioni le ho lasciate al mio compagno…»
«Ho studiato in lungo e in largo la cucina italiana, la sua storia, e ho scoperto – tra le arte cose – che è piena di iscrizioni inerenti e di acqua, tanta acqua. Nella pittura italiana, poi, il cibo è spesso soggetto principale o di contorno delle opere. Si va dalle più classiche nature morte agli agrumi: limoni, arance, mandaranci, pompelmi, cedri inondano e riempono molti quadri, anche in posizioni a loro non consone (come ai piedi di una scalinata).»
«Il cibo è riuscito persino a togliere al Mantegna parte della sua austerità, tanto che in diversi suoi lavori gli alimenti sono protagonisti, soprattutto la frutta. Si può dire che la storia, non solo quella dell’arte, è percorsa dal cibo, ma vale anche l’esatto contrario.»
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