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L’acqua ha una memoria. Prima puntata

Nascita e non-morte delle rivoluzionarie teorie che hanno scosso la comunità (pseudo)scientifica

di Alessandro Zanelli


(fonte immagine)

C’è un elemento in natura che più di tutti è indice di vita, l’acqua, una sostanza che ricopre il 70% circa della superficie terrestre, e che si ripresenta più o meno con la stessa percentuale nella composizione del corpo umano.

È proprio questa relazione ad aver costituito il punto di partenza di alcuni ricercatori, spinti dall’idea che questa semplice combinazione di idrogeno e ossigeno nasconda, in realtà, qualcosa di molto più complesso di ciò che siamo soliti pensare. Si sono così sviluppate diverse teorie, le quali, partendo dal presupposto che gli esseri viventi e il nostro pianeta sono interdipendenti, affermano che l’uomo sarebbe influenzato dall’ambiente in cui si trova, e che egli stesso sia a suo modo in grado di influenzare tutto ciò che lo circonda. In Giappone, in particolar modo, si è addirittura arrivati a credere che l’acqua possieda una ‘memoria’ delle proprie esperienze, e che essa si comporti, inoltre, in modi differenti in base alle diverse sollecitazioni ricevute.

Se ciò fosse vero, se l’acqua possedesse davvero una memoria, ci troveremmo di fronte a un sistema di comunicazione ancora sconosciuto, un sistema del quale, attualmente, non sapremmo ancora nulla. Proviamo solo a pensare se si potesse interrogare un campione d’acqua, magari presente sulla scena di un delitto. E a ciò che succederebbe all’acqua del nostro corpo quando proviamo emozioni, oppure all’acqua del mare quando scoppia una guerra?

Jacques Benveniste e l’«acqua con la memoria»

Il primo capitolo, la prima ‘puntata’ di questo breve itinerario muove dal principio, ovvero da quella rivelazione che per prima è arrivata a scuotere la comunità scientifica, rendendo possibile la nascita delle rivoluzionarie ipotesi cui abbiamo accennato.

Era il 30 giugno 1988 quando, sulla prestigiosa rivista scientifica britannica Nature, comparve un articolo intitolato «Human basophil degranulation triggered by very dilute antiserum against IgE», nel quale venivano descritti i risultati di uno studio condotto dal biologo francese Jacques Benveniste (direttore dell’Unité 200 dell’Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale di Parigi). Assieme al suo team di collaboratori, egli aveva incentrato le sue ricerche su una particolare reazione biologica, chiamata «degranulazione dei basofili», riguardante una tipologia di globuli bianchi presenti in piccola percentuale nel sangue e importanti nello sviluppo delle allergie, posti a contatto con soluzioni di diversa concentrazione di particolari anticorpi detti anti-IgE, ovvero anti-immunoglobuline E.

La scoperta che ne aveva tratto era davvero clamorosa: la reazione di degranulazione continuava a verificarsi anche quando la soluzione di anticorpi veniva fortemente diluita, fino a raggiungere una concentrazione di 10-120 M (dieci alla meno centoventesima molare). Ciò significa che, per trovare una sola molecola di anticorpo, si sarebbe dovuto considerare un volume d’acqua pari a 1.66 · 1096 litri (una quantità immensa se si pensa che il volume d’acqua di tutti gli oceani è stimato nell’ordine di 1020 litri), calcolo che porta a concludere come la soluzione utilizzata fosse praticamente acqua pura. Per spiegare il persistere di tale reazione, Jacques Benveniste e i suoi collaboratori azzardarono un’ipotesi rivoluzionaria: la presenza degli anticorpi nella soluzione avrebbe prodotto delle modificazioni nella struttura dell’acqua, che sarebbero rimaste anche quando ogni traccia di anticorpo era stata rimossa a causa delle ripetute diluizioni. In altre parole, l’acqua avrebbe mantenuto una ‘memoria’ delle sostanze in essa disciolte, anche successivamente alla loro eliminazione. Un’ipotesi che, se confermata, avrebbe rivoluzionato l’intero complesso delle conoscenze fisiche e chimiche.

Il contenuto dell’articolo di Benveniste e del suo gruppo era talmente clamoroso che Nature accettò di pubblicarlo solamente un anno dopo averlo ricevuto, sottolineando, inoltre l’incredulità dei molti referees che in quel periodo di tempo lo avevano visionato, e preoccupandosi di aggiungere una riserva editoriale in cui si annunciavano indagini indipendenti, atte a verificare la scientificità delle ricerche descritte.

Nonostante le riserve con cui Nature aveva pubblicato l’articolo, la notizia dell’«acqua con la memoria» si diffuse a macchia d’olio, superando ben presto il ristretto ambito scientifico e raggiungendo il grande pubblico. Anche i quotidiani italiani non mancarono all’appello. Vennero addirittura pubblicate interviste a vari ricercatori, che proponevano complesse teorie per interpretare il meccanismo secondo il quale l’acqua manterrebbe la sua memoria. Non mancarono, tuttavia, anche articoli critici di esponenti del mondo scientifico, che esprimevano serie perplessità circa il contenuto dell’articolo di Benveniste.

Per quale motivo una notizia che avrebbe teoricamente dovuto interessare solo il ristretto gruppo dei ricercatori chimico-fisici fu così pubblicizzata presso il pubblico di massa? La risposta è semplice. Se i risultati delle ricerche di Benveniste e del suo gruppo si fossero rivelati veri, essi avrebbero potuto costituire la base teorica di una terapia alternativa alla medicina ufficiale, guardata da quest’ultima con estrema perplessità, ma fortemente diffusa e considerata «alla moda». Stiamo parlando, ovviamente, dell’omeopatia, una pratica introdotta verso il 1790 dal medico tedesco Christian Samuel Hahneman, che ripropose un principio già presente nelle opere di Ippocrate e Paracelso, secondo il quale sarebbe possibile curare una malattia somministrando un estratto diluito della sostanza che è causa della malattia stessa (secondo il principio che similia similibus curantur, ovvero il simile cura il simile).

Occorre, a questo punto, ricordare la differenza fondamentale che, all’interno del mondo scientifico, distingue nettamente le «scienze» vere e proprie da quelle che vengono definite «pseudoscienze». Si utilizza il termine pseudoscienza per indicare ogni teoria, metodologia o pratica che affermi di essere scientifica (o voglia apparire tale), e che tuttavia non abbia alcuna aderenza col metodo scientifico (o metodo sperimentale), l’unico riconosciuto dalla scienza moderna per dimostrare validamente le proprie affermazioni.

Da anni gli omeopati si battono affinché la propria disciplina venga riconosciuta dalla medicina ufficiale. Si capisce, pertanto, il motivo per cui l’articolo di Benveniste suscitò tanto clamore anche al di fuori dell’ambiente scientifico. Se l’acqua possedesse effettivamente una memoria, le obiezioni nei confronti dell’omeopatia sarebbero confutate, e l’omeopatia potrebbe finalmente avere il tanto agognato riconoscimento scientifico.

Al fine di mettere alla prova la presunta esistenza del paranormale, ma anche le teorie pseudoscientifiche, in Italia opera il CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale), che cerca di diffondere la pratica della sperimentazione e dell’osservazione oggettiva di fronte a presunti fenomeni paranormali. Inoltre, a livello internazionale esiste da diversi anni il «premio Randi», istituito dalla James Randi Educational Foundation, che mette in palio un milione di dollari per chiunque si dimostri in grado di verificare sperimentalmente l’esistenza di poteri paranormali o la validità di affermazioni pseudoscientifiche (come, ad esempio, prevedere il futuro mediante l’oroscopo). Nessuno però, al giorno d’oggi, è ancora stato in grado di vincere tale sfida.

E proprio James Randi (personaggio singolare, illusionista di professione, divenuto celebre in tutto il mondo per le sue indagini nel campo del presunto paranormale, specializzatosi nello scoprire trucchi e inganni) è stato uno dei tre esperti chiamati a verificare, per conto di Nature, le tesi di Benveniste, assieme a John Maddox (direttore della rivista), e Walter W. Steward (ricercatore del’’Istituto Americano della Sanità ed esperto in frodi scientifiche). La commissione trascorse un’intera settimana presso il laboratorio del prof. Benveniste, a Parigi, ed espose il resoconto del lavoro svolto e le conclusioni che ne aveva tratto in un rapporto dal significativo titolo «High-dilution experiments: a delusion».

Innanzitutto, i membri della commissione vennero a conoscenza del fatto che due dei collaboratori di Benveniste erano stipendiati grazie a un contratto stipulato tra l’Institut National de la Santé e de le Recherche Médicale e la casa farmaceutica Boiron et C., specializzata in prodotti omeopatici. Una scoperta sospetta, ma di per sé non determinante. Dopo aver esaminato accuratamente gli appunti di laboratorio messi a disposizione da Benveniste, i tre esperti proseguirono, inoltre, cercando di ripetere gli esperimenti più significativi con procedure «a doppio cieco», ma i risultati dello scienziato non furono riproducibili (ed è questo uno dei criteri essenziali del metodo scientifico). La commissione scoprì, infatti, che negli esperimenti di Benveniste e collaboratori venivano considerati significativi solo quei risultati che confermavano le aspettative, mentre erano stati eliminati tutti quelli in disaccordo con esse. Tenendo dunque conto di tutti i risultati (positivi e negativi), si otteneva un andamento in perfetto accordo con le previsioni statistiche. Di conseguenza non esisteva nessuna evidenza che dimostrasse la presunta memoria dell’acqua.

In coda al rapporto della commissione di indagine, Nature pubblicò la replica di Benveniste. In essa lo scienziato, fortemente irritato, accusò la commissione di dilettantismo, criticando soprattutto la presenza di James Randi, interpretata come una messa in discussione della propria onestà e correttezza deontologica. Benveniste usoò anche parole grosse, paragonando l’inchiesta cui era stato sottoposto alla persecuzione delle streghe di Salem e al macarthysmo, e concluse la propria replica affermando: «Forse ci siamo sbagliati tutti in buona fede. Questo non è un crimine, ma scienza».

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