
Editoriale
di Giorgio Triani
Situazioni vere e metafore. Da più d’un mese l’acqua la fa da assoluta padrona. Forte di un vocabolario molto ricco di espressioni e modi di dire suggestivi. Ma anche di una straordinaria sintonia con la realtà, non solo fisica, che ci circonda e nella quale viviamo. Raramente però queste manifestazioni linguistiche di segno acqueo, che irrompono nella cronaca, che si impongono nel dibattito culturale, che alimentano il confronto sociale e ambientale sono di segno positivo. Solo eccezionalmente infatti l’evocazione di flussi, onde e universi variamente liquidi (per usare un termine che il successo del celebre saggio di Zigmunt Bauman ha inflazionato in modo ormai insopportabile) evoca situazioni, se non tranquille, sotto controllo. Di «tempeste perfette», che per antonomasia hanno come protagoniste acque terribili, si parla ormai invariabilmente a proposito di finanza e borsa mondiali. Di «onde lunghe», che, se non anomale, sono sempre molto pericolose, si è parlato al primo esplodere della protesta politica e sociale nel nord Africa. Essendo peraltro «l’onda», dallo scoppio della Grande Depressione nel 2008, un’espressione associata a speculazione (sul prezzo del petrolio e delle materie prime) e a inflazione (che è una costante mondiale). Nel contempo che l’immagine di movimento (sovvertitore) che contiene è stampata su tutte le «onde» che in questi anni si sono frante in tanti settori della nostra società. Dall’onda studentesca che protesta contro la Riforma universitaria della Gelmini a quella «viola» o delle donne scesa in piazza contro il premier Berlusconi. Ma sintomatico è pure l’utilizzo di «sommersi» e di «mare» per definire la nostra normale condizione di utenti dell’informazione, segnatamente della tv, ma ultimamente e in maniera crescente in riferimento ai diversi utilizzi di internet, soprattutto quelli fatti in mobilità. Tablet e smartphone, Ipad e netbook stanno infatti trasformando la massa di internauti in una marea dilagante di persone che ormai tende a fare tutto, o quasi, in movimento.
Insomma mai come oggi la mobilità e liquidità dell’acqua si sono imposte in tutta la loro forza immaginifica. E spaventosa. Soprattutto quando ci si trova a fare i conti con la forza distruttiva di una natura che si scatena. E che moltiplica, con la potenza, anche le occasioni, con cui si materializzano fenomeni terrificanti. Da diluvio universale. Da fine del mondo. Se è vero che alluvioni, tifoni, tornado e maremoti sono in questi anni diventati avvenimenti non più eccezionali, ma invece disastri immani su scala locale e globale. È d’inizio mese la pioggia epocale, per quantità e intensità, che ha sconvolto il centro Sud d’Italia e causato morti nelle Marche. Ma a ricordarci, con i toni dell’Apocalisse, che il rischio nelle nostre società non è più un’ipotesi remota, bensì un’ipoteca ormai quasi fisiologica, è stato lo tsunami abbattutosi sulle coste nord orientali del Giappone. Nomi come Sendai, Minamisanriku, Fukushima sono destinati a imprimersi nella nostra memoria, avendoci già fatto rivivere l’incubo di Hiroshima. Perché l’onda anomala di 30 metri che ha cancellato interi paesi, con il ricordo peraltro ancora vivido dello tsunami del 2004, ci ha ricordato anche, con lo scoppio della centrale nucleare di Fukushima, che non c’è tecnologia, anche la più avanzata, com’è ritenuta quella giapponese, che possa reggere alla forza dirompente della natura. Sarebbe auspicabile che non ce ne dimenticassimo mai.
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