
I maestri d’acqua a Palermo in epoca alto-medievale
di Gaspare Ingargiola
(fonte immagine: Corriere del Mezzogiorno / Sergio Siano)
Le opere architettoniche sotterranee sono una caratteristica della città di Palermo, ‘stratificata’ come si vuole che fosse la mitologica Troia scoperta da Schliemann, l’archeologo che nel 1870 credette di aver rinvenuto in Turchia i resti della città cantata da Omero. Anche Palermo, in ogni epoca sottomessa a popoli di ogni cultura e pensiero, può vantare un sottosuolo ‘ricco’ e perlopiù ignoto ai suoi stessi residenti.
Tra le opere della Palermo sotterranea particolarmente interessanti dal punto di vista archeologico sono i qanat, canali acquiferi di epoca araba. Da sempre la necessità di approvvigionamento idrico rappresenta una problematica urgente in un territorio dal clima tanto afoso. In epoca antica il rifornimento idrico era garantito da sorgenti e pozzi freatici situati fuori le mura della «paleopoli» (la città antica), che sorgeva su una penisola compresa tra le foci dei fiumi Kemonia e Papireto.
Col sopraggiungere della dominazione araba la situazione mutò profondamente, e in meglio. Gli arabi giunti in Sicilia appartenevano alla dinastia dei Kalbiti, subordinata alla dinastia dei Fatimidi. I Kalbiti conquistarono Palermo nell’831 e l’intera isola nel 965. Negli anni della loro dominazione (che perdurò fino al 1048) ebbero l’enorme merito di rendere Palermo la capitale culturale europea e la Sicilia una terra florida dal punto di vista economico, culturale, infrastrutturale.
Per quanto attiene le infrastrutture idriche del capoluogo siculo, i Kalbiti procedettero alla riorganizzazione del rifornimento idrico sia in ambito urbano che extraurbano: da allora, la piana di Palermo divenne quel rigoglioso giardino conosciuto nel mondo come la Conca d’oro. Nell’opera di riorganizzazione era inclusa proprio la realizzazione dei qanat. Si tratta di strette gallerie sotterranee scavate dai muqanni, i «maestri d’acqua», che convogliavano e trasportavano il prezioso elemento dalle falde acquifere fino al punto di fruizione finale. Per realizzarle, i maestri d’acqua arabi utilizzavano delle semplici zappe, sfruttando la friabilità e lavorabilità della calcarenite, il minerale che per massima parte concorreva alla composizione del terreno nella piana di Palermo.
Insieme ai foggara, altra tipologia di condotto sotterraneo, i numerosi qanat costituivano un sistema di canalizzazione basato sul principio dei vasi comunicanti, sistema che consentiva di trasportare l’acqua in superficie anche da notevoli profondità. I condotti si sviluppavano secondo una pendenza mai superiore allo 0,5%, in modo da garantire un flusso regolare ma ridotto, che non erodesse in tempi brevi le pareti dei qanat. Gli scavi procedevano da valle verso monte per evitare il deflusso delle acque.
I maestri d’acqua si occupavano anche della realizzazione di pozzi verticali che mettevano in comunicazione i qanat con la superficie. Tali pozzi avevano una duplice funzione: da una parte venivano utilizzati per l’estrazione del materiale da scavo, dall’altra facilitavano la raccolta dell’acqua nelle abitazioni.
La maestranza dei maestri d’acqua aveva dunque una particolare importanza nell’economia e nella società palermitane in epoca alto-medievale. La rilevanza della loro opera venne riconosciuta dalla creazione di una delle corporazioni delle arti e mestieri che sorsero a partire dal XII secolo. Le corporazioni medievali erano associazioni deputate a regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti a una stessa categoria professionale. Anche la corporazione dei maestri d’acqua aveva evidentemente elaborato un sistema di norme di riconoscimento e organizzazione del proprio mestiere.
In origine i maestri d’acqua facevano parte di un’unica maestranza con i mastri muratori e solamente in seguito ottennero di potersi organizzare in una corporazione autonoma, con mansioni rigorosamente distinte da quelle degli stessi muratori. Tale distinzione venne sancita nel 1644 dal Senato Palermitano attraverso uno specifico accordo* che coinvolgeva entrambe le categorie lavoratrici. Anche all’interno della loro stessa corporazione i maestri d’acqua osservavano una stretta suddivisione delle specifiche competenze.
La maestranza si reggeva su basi cooptative e il mestiere veniva trasmesso di padre in figlio: per l’erede di un maestro d’acqua era sufficiente pagare una tassa di 3 once per entrare a far parte della corporazione. Molto più complesso l’iter di inserimento per un ‘esterno’. Il garzone che avesse voluto acquisire l’ambito titolo professionale, doveva compiere un periodo di apprendistato alle dipendenze di un maestro della durata di 6 anni. A sua unica garanzia, in caso di prepotenze o torti subiti il garzone poteva rivolgersi al consiglio della corporazione e al suo capofila, il così detto console, chiedendo il trasferimento presso altra bottega e altro maestro.
Trascorsi i 6 anni, il garzone doveva affrontare una severa selezione, sottoponendosi a una prova finale della durata di 2 settimane: sotto le direttive di un maestro d’acqua doveva dimostrare la padronanza dei mezzi e delle conoscenze necessaria per la ‘promozione’ a maestro d’acqua. Al termine delle 2 settimane, un’apposita commissione esaminatrice (composta da membri del consiglio della corporazione, dal ‘console’ e da maestri d’ di provata esperienza e indubbia capacità) giudicava la prova ed eventualmente attribuiva l’ambito ‘titolo’ di maestro tanto faticosamente guadagnato.
Sanzioni erano previste per quei commissari che non giudicassero con probità e misura, ad esempio tentando di favorire un loro prediletto. Chi non si fosse dimostrato all’altezza, doveva tornare a praticare il mestiere in bottega in attesa di una nuova prova d’esame. In alternativa, poteva provare a sposare la figlia di un maestro d’acqua, la qual cosa permetteva di ereditarne immediatamente il titolo, così come accadeva per i figli. Le figlie dei maestri d’acqua, infatti, potevano sposare solo i maestri d’acqua, i loro figli o i loro garzoni.
I maestri d’acqua avevano anche un santo protettore, San Miniato, e celebravano la propria maestranza ogni 4 di agosto con un processione molto sentita e partecipata, nella quale ogni maestro era obbligato a portare un cero acceso con sopra inciso il simbolo della maestranza.
L’arte dei maestri d’acqua ha resistito per secoli e solo a partire dalla seconda guerra mondiale è entrato in disuso. La città di Palermo ha ricordato il loro antico mestiere intitolando loro due vie: la Via Maestri d’Acqua si trova fra la Via Divisi e la Piazzetta Montesanto nel Mandamento Tribunali. Il Vicolo Maestro d’Acqua (già Vicolo dei Maestri Fontanieri) si trova fra la Via S. Agostino e la Piazzetta delle Stigmate e via Ugo Antonio Amico nel Mandamento Monte di Pietà.
* F. Lionti, Antiche maestranze della Città di Palermo, Palermo, Offset Studio, 2009.
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