
Intervista a Lorenzo Monaco, giornalista scientifico e ambientale
di Marcello Frigeri
Lorenzo Monaco è giornalista scientifico e ambientale. Ha scritto per l’editore Springer Water Trips- Itinerari acquatici ai tempi della crisi idrica, un libro che è contemporaneamente inchiesta sullo stato dell’acqua in Italia e manuale d’uso per i lettori che vogliano esplorare autonomamente la loro acqua.
Perché i cittadini dovrebbero diventare degli esploratori dell’acqua?
Perché si tratta della nostra identità. Noi siamo fatti di questa sostanza, con una percentuale di circa il 70 per cento di acqua, siamo più fluidi che solidi. Capire cosa sta succedendo alla sostanza che ci alimenta e compone, vuol dire capire cosa sta accadendo a noi.
In questi giorni si discute molto sul tentativo di privatizzazione dell’acqua, sui Decreto Ronchi e Decreto Calderoli che riguardano rispettivamente i processi di privatizzazione del Servizio idrico integrato (SII) e la soppressione delle Aato, le agenzie pubbliche che si occupano del SII. Innanzitutto, cosa dovrebbero sapere i cittadini di questi due decreti?
Che non parlano di acqua, ma di tubi. Di acquedotti, di fognature e di chi deve gestirli. Il problema dell’acqua in realtà ha una scala diversa. L’acqua della quale abbiamo esperienza quotidiana però esce da un rubinetto per finire in un foro di scarico o in un WC, quindi ci sembra che questi decreti stiano rivoluzionando la gestione di tutta l’acqua. Ma l’acqua è molta di più. Quella che piove sulle nostre teste – e che si trasforma in laghi, fiumi, falde – viene utilizzata da industrie, centrali energetiche, consorzi di bonifica, agricoltori, allevatori. E si trasforma in elettricità, cibo, televisori e armadi. Ognuno di questi usi ha le sue regole e i suoi parametri particolari. Quella che finisce tra le mura delle nostre case (la cui fornitura e trattamento con depuratori viene appunto chiamata Servizio idrico integrato) è solo il 20 per cento del totale. Dal dibattito pubblico scorre via l’80 per cento dell’acqua che usiamo.
Ma cosa sta succedendo all’acqua domestica?
E’ accaduto che il decreto Calderoli abbia eliminato le autorità pubbliche che controllavano acquedotti e fognature – e che, tra l’altro, concordavano il prezzo delle bollette con le società di gestione – per trasferire i poteri di controllo in un futuro prossimo, con tempi e modi incerti, alle Regioni. Il decreto Ronchi, in particolare l’articolo 15, ha scosso maggiormente l’opinione pubblica, perché ha imposto la presenza di aziende private nella gestione dei nostri tubi.
Privatizzazione dell’acqua, dunque. Cosa significa?
Ecco, in realtà l’acqua non è stata privatizzata. L’acqua è e dovrebbe rimanere un bene pubblico. E’ accaduto qualcosa di più sottile: l’Italia ha reso obbligatorio, anche se non esclusivo, l’ingresso delle aziende nella gestione di acquedotti, fognature e depuratori. L’idea che sta alla base è che solo aziende che possono fare del profitto sono in grado di rendere efficiente il servizio. E di attirare capitali. Questo decreto è l’ultimo capitolo di un lontano desiderio, iniziato negli anni ’90, di dare una logica industriale all’intero settore. Ma è una novità clamorosa in un Paese in cui la maggior parte dei gestori dell’acqua di casa, il 61 per cento, è totalmente pubblico (anche se spesso le logiche con cui si muovono appaiono spesso aziendali). I contrari alla privatizzazione sono convinti, dati alla mano, che la lunga mano delle aziende sui tubi non abbia risolto nessuna delle criticità degli acquedotti e delle fognature. Per questo motivo, il tentativo dei movimenti “per l’acqua pubblica” è quello di trasformare questo servizio da “economico” a “privo di rilevanza economica”. Sono filosofie contrapposte. I referendum saranno il timone per capire da che parte andare.
Il coro della protesta dei contrari alla privatizzazione, spesso, recita: “Vogliono privatizzare l’acqua, un giorno privatizzeranno anche l’aria”. Giusto paragonare acqua con aria?
Viene spontaneo, sono due beni che diamo per scontati. La paura non nasce tanto dal fatto che attorno all’acqua si aggirino dei privati, ma che questo implichi un aumento di prezzo di un bene necessario. Accostare aria e acqua parlando di prezzo è un’abitudine che viene dal passato. Adam Smith, il padre dell’economia classica, nella Scozia di fine 1700 diceva che “nulla può essere dato per l’uso dell’aria e dell’acqua o di qualche altro dono della natura, di cui esiste una quantità illimitata”. L’aria e l’acqua, insomma, viste da una stanza di Edimburgo di quasi trecento anni fa, sembravano infinite e quindi dovevano essere gratuite. Ora, nel ventunesimo secolo, sappiamo però che le riserve annuali di acqua sono sempre più sottili e inquinate. Per bere dobbiamo lavorare l’acqua, manipolarla tecnologicamente per farla rientrare nei parametri di potabilità o per non creare uno scarico inquinante. Questo ha un costo. L’aria, inquinata anch’essa, non ha prezzo solamente perché non nessuno si prende il disturbo – come accade invece in qualche romanzo di fantascienza – di pulirla, infilarla dentro bombole e venderla ai cittadini. Più che all’aria, l’acqua andrebbe paragonata al cibo. Anche gli alimenti sono bene fondamentale, anch’essi sono in mano ai privati (a differenza dell’acqua nessuno li considera un bene comune) e di conseguenza hanno un costo.
Infatti la domanda da farsi non è tanto se l’acqua debba costare, ma quanto può arrivare a costare l’acqua? Dovrò pagarla come un prodotto DOP?
Il prezzo è frutto di un compromesso. Dal 1994 – anno in cui venne sfornata una norma fondamentale del settore chiamata legge Galli – la tariffa è negoziata tra le Aato, le agenzie che sono in via di smantellamento, e i gestori dell’acqua domestica. In bolletta finisce il profitto della società e il costo delle infrastrutture. Il prezzo dell’acqua aumenterà nel futuro? Credo proprio di sì, anche se l’acqua tornasse “totalmente pubblica”, perché la rete italiana ha bisogno di enormi investimenti. Secondo le nostre leggi anche questi costi devono ricadere sulle bollette. Con l’ingresso dei privati alla tariffa si aggiungerà sicuramente la quota legata al guadagno. L’impennata delle tariffe sarà sostenibile? Solo se riusciremo ad avere delle autorità pubbliche di controllo sufficientemente forti. La creazione di un’Authority italiana dell’acqua è però un tema che rimane stranamente in sordina.
Tre miti sull’acqua: ce n’è sempre di meno; quella che sprechiamo noi potrebbe essere riutilizzata nelle regioni povere del mondo (che non ne hanno); l’acqua del rubinetto è inquinata. Ti senti di sfatarli tutti e tre oppure sono crude realtà?
Il primo è reale. Nei miei viaggi ho incontrato solo persone che si lamentano che le riserve di acqua sono sempre più esigue. Da un lato la colpa è del cambiamento climatico, che, secondo le opinioni del mondo scientifico, allontana dall’Italia le nuvole cariche di pioggia o la condanna a temporali sempre più brevi e intensi, una situazione che impedisce al terreno di ricaricarsi di acqua. Dall’altro beviamo troppo: secondo la Commissione europea siamo al terzo posto tra gli sfruttatori idrici, insieme a Spagna, Macedonia e Malta. Per fortuna l’acqua è un bene rinnovabile, non è il petrolio o l’uranio destinati a finire, e quindi non si esaurirà mai. Bisogna però adattarsi alle sue fluttuazioni. Il secondo mito invece è falso. L’acqua è un prodotto locale. Non si può trasportare per lunghe distanze. Quindi chiudere un rubinetto a Cuneo non salverà il Burkina Faso in via di desertificazione. L’acqua va usata e risparmiata nel luogo dove è piovuta.
E il terzo mito?
Ciò che alberga in un rubinetto è una delle principali preoccupazioni degli italiani quando pensano all’acqua. L’unica cosa che posso dire è che per legge l’acqua deve essere potabile. Talvolta però qualcosa va storto e nei tubi dell’acqua finiscono veleni (è successo a Pescara nel 2007 e nel Molise solo qualche settimana fa). Si tratta però di eccezioni: l’acqua di rubinetto rimane uno dei prodotti alimentari più controllati.
Tre cose fondamentali che dovrebbero sapere i cittadini sull’acqua.
Ne basta una, che tendiamo a dimenticarci. L’acqua non è una risorsa. L’acqua è il principale ingrediente degli ecosistemi e sostiene gli animali, le piante e le alchimie che trasformano il territorio. L’aver scordato questo semplice fatto conduce all’iper-sfruttamento delle crisi idriche estive che svuotano i fiumi e le falde, ma anche dei pericolosi dissesti che provocano alluvioni ed esondazioni d’inverno. Alla base c’è la stessa idea: la perdita della memoria che l’acqua è prima di tutto un ambiente che va rispettato. I fiumi devono avere il diritto di avere acqua, avere meandri ed esondare: è la loro natura.
Thank’s!
più chiaro di così…perchè quelli come questo giornalista non stanno sulle prime pagine dei giornali e al posto di quelle marionette intervistate nelle demenziali e faziose trasmissioni televisive che ci propinano come politico-culturali?
E noi diamo spazio 🙂