
(Mis)fatti acquatici siciliani
di Gaspare Ingargiola
Quella parte di storia italiana che è fatta di stragi, misteri, mafie, leggi prima emanate e poi dichiarate illegittime, sembra riguardare anche la gestione di un bene pubblico come l’acqua. In particolare, l’affare della gestione dell’acqua pubblica in Sicilia ha raggiunto ad oggi dimensioni abnormi. Basti pensare che l’accordo sulla privatizzazione dell’acqua, in vigore fino a maggio 2010 prima della legge di riconversione pubblica promulgata dalla giunta Lombardo, prevedeva la gestione di una cifra vicina ai 5,8 miliardi di euro da amministrare fino al 2044, con investimentia fondo perduto dell’Unione Europea per più di un miliardo. Un mucchio di soldi che indurrebbe in tentazione anche il cittadino più integerrimo. E infatti è così: il giro di nomi e aziende più o meno raccomandabili che circolano da sempre attorno all’oro blu siciliano è impressionante.
Già nel 1945 a Ficarazzi, nei pressi di Palermo, veniva ucciso Agostino D’Alessandro, segretario della Camera del lavoro e simbolo della lotta contro il controllo mafioso dell’acqua. A Mussomeli, provincia di Caltanissetta, il 17 febbraio 1954 i carabinieri intervenivano durante una manifestazione di oltre 2500 persone che protestavano davanti il Comune per la cronica mancanza d’acqua e per la pretesa dell’Ente Acquedotti Siciliani (più brevemente EAS) di riscuotere ugualmente le bollette. Negli scontri che seguivano morivano quattro persone: Vincenza Messina di 25 anni, madre di 3 bambini, Onofria Pellitteri di 50 anni, madre di 8 figli, Giuseppina Valenza di 72 anni e un adolescente, Giuseppe Cappalonga di 16 anni.
A quel tempo l’EAS iniziava a configurarsi come quell’agglomerato di potere e denaro che sarebbe poi diventato negli anni. La
storia dell’Ente Acquedotti Siciliani non ha davvero bisogno di commenti. Istituito da Vittorio Emanuele III con il regio decreto n. 24 del 19 gennaio 1942, l’EAS aveva lo scopo di costruire nuovi acquedotti, completare quelli in corso di costruzione e mantenere quelli già esistenti. Dalla Carta dei Servizi dell’azienda veniamo a sapere che “nell’ambito del territorio siciliano curava la gestione diretta delle reti idriche interne di 111 Comuni e di 17 grandi frazioni comunali, per un totale di circa 300.000 utenze, servendo quindi complessivamente una popolazione di 900.000 abitanti. Inoltre forniva acqua ai serbatoi di altri 62 comuni, per un’ulteriore popolazione servita di oltre un milione di abitanti. Complessivamente l’EAS distribuiva circa 120 milioni di metri cubi/anno di acqua raggiungendo un bacino di utenza di poco più di un terzo della popolazione siciliana. L’Ente, inoltre, curava la gestione diretta di 11 grandi sistemi acquedottistici di notevoli dimensioni quali Ancipa, Alcantara, Fanaco, Madonie, Montescuro, Favara di Burgio, Gela-Vittoria, Gela-Aragona, Blufi, Bresciana e Prizzi-Gammauta, 3 invasi artificiali con annesse dighe (Fanaco, Leone e Scanzano), 3 grandi impianti di potabilizzazione (Ancipa, Blufi e Fanaco), 175 impianti di pompaggio (comprendenti circa 50 pozzi di emungimento), 210 serbatoi idrici a servizio di centri abitati, 1.160 km di condotte idriche di adduzione, 40 km di gallerie”. Insomma, un’azienda pubblica imponente per struttura e peso economico. Se non fosse che di pubblico l’EAS mantiene solo le apparenze.
È negli anni Settanta e Ottanta che viene alla luce la connivenza tra gestione politica e gestione mafiosa dell’acqua. La grande “sete di Palermo” del 1977-78 è l’occasione per accertare l’esistenza di questi intrecci putridi, grazie all’apertura di un’inchiesta sulle fonti di approvvigionamento idrico nella Conca d’Oro panormita. Il magistrato che conduce l’inchiesta, il pretore Giuseppe Di Lello, si trova però a fronteggiare un ostacolo inatteso: l’assenza di un censimento delle fonti idriche palermitane. Il pretore di Lello riesce a scovare alcune mappe idriche, redatte ai tempi dal Ministero degli Affari Pubblici e dall’Assessorato all’Agricoltura. Le mappe, però, si rivelano imprecise e incomplete: in particolare, è assente la tracciatura di alcune fonti di approvvigionamento idrico quantitativamente imponenti. Si tratta di falde acquifere sotterranee in grado di soddisfare l’intero fabbisogno idrico del capoluogo e delle campagne circostanti, che dovrebbero essere pubbliche e invece non sono nemmeno registrate. Di Lello intuisce che nella redazione delle mappe idriche è stato osservato un criterio di “rispetto” di certe zone e di certe acque illecitamente privatizzate. Non è un caso se in quegli anni il comune di Palermo paga 800 milioni di lire annui ai proprietari delle fonti, fra i quali spiccano i componenti delle famiglie mafiose dei Greco di Ciaculli, dei Buffa, dei Marcerò, dei Motisi, dei Teresi.
Negli anni Ottanta l’EAS diventa un target nella lotta politico-affaristica della regione, configurandosi come efficace strumento di controllo sulle città, a uso e consumo soprattutto della DC di Salvo Lima e del partito repubblicano di Aristide Gunnella, futuro ministroper gli Affari Regionali del governo Goria nel 1987. Nel ’91 Gunnella è indagato dal magistrato Paolo Borsellino per associazione mafiosa e voto di scambio, successivamente anche per corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Gunnella verrà condannato a due anni di reclusione e nel 2006, in sede di Corte di Cassazione, al risarcimento dei danni seguiti al disastro ambientale causato dalla diga dell’Ancipa, nel quale era coinvolto. Gli altri reati, nel frattempo, cadranno in prescrizione. L’ex-ministro non è il solo repubblicano connesso all’EAS che in quegli anni finisce suscita l’attenzione della magistratura: c’è anche Ninni Aricò, segretario provinciale del Pri, consigliere comunale a Palermo ma soprattutto presidente dell’Ente Acquedotti. Aricò riceve ben tre avvisi di garanzia per tangenti intascate in occasione di alcuni appalti pubblici indetti dall’EAS e aggiudicati da imprese colluse, tra le quali spiccano l’azienda dell’imprenditore milanese Enrico Lodigiani e la Cogei di Mario Rendo, che ha partecipato alla costruzione del tunnel della Manica.
Mario Rendo è un imprenditore facoltoso, conosciuto in Sicilia per essere uno dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse denunciati sul Giornale del Sud da Pippo Fava, giornalista ammazzato dalla mafia il 5 gennaio 1984. Ai magistrati Rendo confessa di avere pagato a Gunnella una tangente da 25 milioni di euro. La tangente sborsata da Lodigiani, come si verrà a sapere, ammonta addirittura a 150 milioni di euro. Il tramite per le tangenti, in entrambi i casi, è stato proprio Aricò, che in quegli anni corre da una parte all’altra per “aggiustare” appalti di opere pubbliche mai completate. Sopra tutte, l’acquedotto dell’Ancipa sul fiume Simeto, trionfo dell’abusivismo edilizio siciliano. Costruito grazie ai finanziamenti della Cassa del Mezzogiorno, costato la bellezza di 430 miliardi di lire, l’acquedotto viene appaltato dall’EAS proprio a Lodigiani e Rendo. I due compari avviano la realizzazione di un’opera faraonica, una megastruttura che consta, tra le altre scempiaggini, di due canali sopraelevati che avrebbero dovuto addentrarsi per 12,3 km all’interno della riserva naturale del Parco regionale dei Nebrodi. Una volta ultimato, l’acquedotto avrebbe causato il prosciugamento pressoché completo dei torrenti da cui ha origine il Simeto, com’è difatti accaduto per il torrente Martello. Purtroppo per loro, i due imprenditori vengono beccati con le mani nella marmellata grazie al puntiglio di due dirigenti di Legambiente, Giuseppe Arnone e Angelo Di Marca. Lodigiani e Rendo vengono denunciati, processati e condannati alla demolizione delle opere e al ripristino dei luoghi (mai attuato), con sentenza definitiva in Cassazione del 21 dicembre 1993.
A dispetto delle misure giudiziarie, tuttavia, l’opera di completamento dell’acquedotto viene ripresa e affidata al nuovo presidente dell’EAS, Carmelo Conti, ex-presidente della Corte d’Appello di Palermo appena andato in pensione e incaricato dalla Regione che giustappunto voleva conferire all’EAS una parvenza di ripristino della legalità. Inevitabilmente, anche Conti finirà sotto processo.
La storia della penetrazione del privato nella gestione dell’acqua siciliana però non finisce qui. Il 5 gennaio 1994 il parlamento nazionale emana la legge 36, la così detta o legge Galli, che il governo regionale recepisce con un’interpretazione capziosa. Cosa dice la legge Galli? Introduce innanzitutto il concetto di servizio idrico integrato, ovvero l’istituzione di un gestore unico per l’intero ciclo di captazione, adduzione e distribuzione dell’acqua. A questo fine individua gli Ambiti Territoriali Ottimali (Ato), aree di gestione delimitate in corrispondenza (almeno teorica) dei bacini idrografici: nei fatti verranno grosso modo ricalcati i confini amministrativi. In definitiva, viene istituito un servizio pubblico che coordini e gestisca al meglio le varie fasi del ciclo dell’acqua. Fin qui niente di male: anzi, per i cittadini sembrerebbe configurarsi una positiva omogeneizzazione delle tariffe del servizio idrico, con l’appianarsi delle differenze tariffarie tra un Comune e l’altro. Tuttavia, già l’art. 14 della legge Galli suscita le prime perplessità. A fare discutere è il comma 1, quello che afferma che “la quota di tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura e di depurazione è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi”. In pratica, indipendentemente dal fatto che le cose si facciano (e che si facciano più o meno correttamente), i cittadini devono pagare. Non solo, ma l’eventuale adeguazione degli impianti è a discrezione (“facoltà”, dice il comma 1) dei Comuni. Se ne hanno voglia, le amministrazioni locali lavorano, altrimenti va bene lo stesso: l’importante è che gli utenti paghino. Un vera truffa, sbugiardata dalla Corte Costituzionale che dichiarerà questo articolo incostituzionale con la sentenza 335 del 2008: non si può richiedere il pagamento di un servizio che non c’è.
Per tornare all’ambito siciliano, il vulnus provocato dalla legge Galli, come detto, è costituito dalla sua interpretazione locale. Il 27 aprile 1999 il parlamento regionale (l’ARS, Assemblea Regionale Siciliana) emette la legge 10, il cui articolo n. 23 prevede la ricerca di un partner privatoper l’EAS e la sua trasformazione in S.p.A.. Presidente della Regione in quel momento è il diessino Angelo Capodicasa. L’obiettivo è la costituzione di una Società per azioni in grado di ereditare la gestione del solo servizio di adduzione. In realtà, la privatizzazione finirà con l’inglobare tutte le fasi del ciclo dell’acqua. Con i decreti del 16/05/00 e del 07/08/01, firmati dal successore di Capodicasa, Salvatore Cuffaro, il governo dell’isola recepisce le direttive dell’Unione Europea per l’attuazione (ormai inderogabile) della legge Galli attraverso una più definita riforma del servizio idrico regionale. Vengono disciplinate le forme di cogestione tra i Comuni e le Province, individuando nove ATO sulla base dei confini amministrativi fra le Province siciliane. Contestualmente nel 2001 l’EAS viene posta in liquidazione e la Regione indice una gara d’appalto europea per la ricerca del socio privato, al quale cedere il 75% del pacchetto azionario di una nascente società mista pubblica/privata, appositamente creata: la Siciliacque S.p.A.. Il restante 25% dovrà rimanere pubblico. La messa in liquidazione dell’EAS subirà ritardi e contrattempi burocratici, soprattutto a causa dei mancati pagamenti da parte di diversi Comuni morosi, e verrà completata solo dopo tre anni, nel 2004.
La figura del commissario liquidatore dell’EAS è quantomeno pittoresca. Marcello Massinelli, banchiere, ex-presidente del Basket Trapani, ex-presidente del consorzio per la realizzazione nella “Valle dei Templi”dell’aeroporto di Agrigento e vice presidente dell’Airgest, società che ha in gestione l’aeroporto di Trapani-Birgi, ha avuto un’esperienza di consulenza presso il Ministero del Tesoro. Il pentito Francesco Campanella lo ha chiamato in causa nel processo su un centro commerciale di Villabate in odor di mafia. Anche il vice commissario liquidatore è una figura che fa discutere:si tratta di Salvatore Lorenzo D’Urso, che quando riceve la nomina nel 2001è ancora un componente dell’ufficio di Gabinetto dell’Assessore regionale ai Lavori Pubblici. Controllore e controllato.
Alla gara d’appalto si presenta un solo soggetto, il raggruppamento temporaneo di imprese Idrosicilia S.p.A., partecipato tra le altre da ENEL ed ENI ma soprattutto da Veolia Environment. In definitiva, il capitale sociale di Idrosicilia S.p.A. risulta così composto: Veolia 65%, Acqua S.p.A. (della Regione Basilicata) 10%, Siba S.p.A 5% (anche qui la Veolia ci ha messo lo zampino con un 25% delle quote, contro il 75% del socio di maggioranza Emit), PT srl 5%, Amitech Spain SA 10%, Emit S.p.A 5%. In sintesi, queste imprese istituiscono il consorzio Idrosicilia S.p.A., che acquista dalla Regione il pacchetto di maggioranza della società mista Siciliacque. Leggendo i nomi delle aziende, balza subito all’occhio (almeno a quello di scrive, ma evidentemente non a quello di qualcun altro) la creazione di un vero e proprio cartello monopolistico, costituito essenzialmente dalla Veolia e dalla Emit appartenente al gruppo Pisante. La Veolia predispone un piano di investimenti per un ammontare complessivo di 580 milioni di euro da articolare nell’arco di 40 anni di concessione. Per la vendita dell’EAS, la Regione Sicilia incassa quasi 200 milioni di euro. La copertura finanziaria dell’accordo è garantita da importanti gruppi bancari come Unicredit e Banca Intesa.
Ma cos’è la Veolia Environment? È un’impresa di servizio pubblico che agisce nell’ambito della gestione dei rifiuti e dell’acqua, dei trasporti e della produzione di energia. Fa parte del gruppoVivendi, una multinazionale francese pluricentenaria (istituita da Napoleone III con un decreto imperiale del 1853), che si occupa di cinema, televisione, editoria e telefonia. In Italia, la Veolia gestisce o ha gestito il ciclo dell’acqua (per intero o nelle sue singole fasi) in Veneto, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Marche, Calabria e, appunto, Sicilia.
Sulla base degli accordi firmati con la Regione, Siciliacque S.p.A (che appartiene, ricordiamolo, per il 75% a Idrosicilia S.p.A. e per il 25% alla Regione) ha il compito di realizzare e gestire il così detto “sovrambito”, ovvero l’insieme di grandi infrastrutture quali acquedotti, dighe e potabilizzatori: una rete di 1743 km di condotte di adduzione, costituita da 13 sistemi acquedottistici interconnessi (Alcantara, Ancipa, Blufi, Casale, Dissalata Gela – Aragona, Dissalata Nubia, Fanaco – Madonie Ovest, Favara di Burgio, Garcia, Madonie Est, Montescuro Est, Montescuro Ovest, Vittoria – Gela). Ogni anno Siciliacque fornisce circa 90 milioni di metri cubi di acqua potabile agli ATO provinciali, che la acquistano (a caro prezzo) e la ridistribuiscono alle abitazioni. La rete è alimentata da 7 invasi artificiali (gestiti dalla Enel, dal petrolchimico di Gela e dalla stessa Siciliacque), 7 campi pozzi, 11 gruppi sorgenti, 3 impianti di dissalazione di acqua marina a Gela, Porto Empedocle e Trapani (i cui gestori sono gli stessi degli invasi) e 6 impianti di potabilizzazione.
Nonostante questa grande opera di ammodernamento (in verità ancora in corso), nel 2002 una gravissima emergenza idrica colpisce l’isola. Perché? Perché c’è la siccità, spiegano alla Regione. Una terribile siccità che colpisce l’isola, mettendola in ginocchio a causa di un volume di piogge inferiore tra il 100% e il 200% rispetto alle medie dell’intero XX secolo.
Ma basta la siccità a giustificare la penuria di acqua nelle case, che giunge a livelli insostenibili in occasione della stagione calda? No, non basta. Ci sono altre questioni sulle quali riflettere, altre spiegazioni da dare. Sugli invasi, per esempio. Che, in realtà, sono dei veri colabrodo, troppo antiquati e mal funzionanti, o troppo piccoli e mal gestiti. In Sicilia il fabbisogno di acqua si attesta su una media annua di 2 miliardi e 482 milioni di metri cubi (1 miliardo e 325 milioni per l’irrigazione dei campi, 727 milioni per dissetare i centri abitati, 430 milioni per il fabbisogno industriale). Le sole piogge garantiscono all’isola un apporto medio annuo di 7 miliardi di metri cubi, quasi il triplo del fabbisogno complessivo. L’emergenza della sete, però, in Sicilia non ha mai fine. Perché? Dove finisce l’acqua? Finisce perlopiù nelle mani della mafia, che, nonostante la privatizzazione (o forse proprio per questo), continua a sfruttare abusivamente invasi e acquedotti, a imporre tangenti ed estorsioni, a rubare l’acqua per rivenderla a peso d’oro. La stessa Siciliacque S.p.A., per non sapere né leggere né scrivere, fino a poco tempo fa acquistava due milioni di metri cubi annui di acqua presso l’imprenditore Pietro Di Vincenzo, “padrone” del dissalatore di Gela, arrestato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a una pena di un anno e otto mesi e al sequestro di beni per 300 milioni di euro.
Oppure? Dove finisce l’acqua siciliana? Si disperde. Ancora oggi in Sicilia più del 40% dell’acqua che entra nel circuito idrico non arriva a destinazione per il cattivo stato delle infrastrutture. In occasione dell’emergenza idrica, è venuto fuori che i 39 invasi in esercizio, che avrebbero la capacità di approvvigionare con regolarità ed efficienza tutti gli abitanti dell’isola, non lo fanno perché le dighe non vengono mai collaudate o messe in sicurezza con la dovuta regolarità, e così la loro capacità è ridotta a un quarto di quella potenziale. Così, capita spesso che lo SND (il Servizio Nazionale Dighe) non dia l’autorizzazione al riempimento degli invasi oltre determinati limiti, che vanno dai 300 ai 590 milioni di metri cubi complessivi. Un valore che con l’evaporazione può scendere fino ai 200-250 milioni, ben lontano dagli oltre 2 miliardi necessari.
Tra l’altro, può davvero dirsi migliorata l’integrazione del servizio idrico unico? Forse. Ma è un fatto che la privatizzazione ha comportato un’esponenziale crescita del numero degli enti che si occupano dei servizi di captazione, adduzione e distribuzione dell’acqua. Nel 2002, ad appena tre anni dalla legge 10, tra municipalizzate locali, enti acquedottistici, enti erogatori e consorzi di bonifica si contano già oltre 450 organismi, tanto che il commissario straordinario per l’emergenza idrica, Salvatore Cuffaro, è costretto a farne compilare un dettagliato (e sterminato) elenco per riuscire a raccapezzarsi. È una figura nefasta per la politica siciliana, quella di Salvatore Cuffaro. Mentre è ancora presidente della Regione Sicilia viene indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e rivelazione d’atti coperti dal segreto istruttorio. In seguito l’accusa di concorso esterno viene commutata (e attenuata) in favoreggiamento aggravato prima e in favoreggiamento semplice poi. Il 18 gennaio 2008 viene condannato in primo grado per favoreggiamento semplice e rivelazione d’atti coperti dal segreto istruttorio a 5 anni di reclusione e all’interdizione perpetua ai pubblici uffici. E infatti, dal 13 aprile 2008 entra nel Parlamento nazionale dalla porta principale, come senatore eletto per la lista dell’UDC nel collegio siciliano. In pratica, un “riconoscimento”, nonostante le gravi pendenze giudiziarie. Il 24 febbraio 2009 è entrato nella Commissione di Vigilanza RAI. Un’altra promozione. Dall’ottobre 2010 non è più iscritto all’UDC: con un gruppo di scissionisti ha fondato il PID (partito dei Popolari d’Italia Domani) ed è entrato a far parte della maggioranza di governo capitanata da Silvio Berlusconi.
Il programma commissariale di Salvatore Cuffaro si presenta fitto di impegni e promesse. I progetti e le garanzie d’intervento, però, saranno adempiuti solo in minima parte. La ricostruzione delle vicende e dei contrattempi giudiziari che hanno rallentato l’ammodernamento idrico in Sicilia è molto complessa:
PALERMO:
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Diga Poma. La diga sul fiume Jato potrebbe fornire acqua potabile a tutti i Comuni della provincia di Palermo, grazie a una capacità massima di 70 milioni di metri cubi d’acqua. Invece ne raccoglie solo 10: lo studio dell’impatto dell’onda di piena sulla diga, reso obbligatorio per legge dopo la tragedia del Vajont, non è stato mai fatto. Aspettiamo.
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Diga dello Scanzano e di Monte Rossella (che sottende il serbatoio di Madonna della Grazie). Costruita con i materiali forniti dal boss corleoneseLuciano Liggio, è costata una guerra di mafia tra i Liggio e la famiglia rivale dei Navarra, guerra che ha causato cinque anni di sangue e stragi e una ventina di morti ammazzati. I Navarra, infatti, erano contrari alla costruzione di questa diga e di quella di Piano della Scala, ma a vincere furono gli interessi maggiormente “imprenditoriali” di Liggio. Il piano straordinario di Cuffaro prevedeva la rimozione della “temporanea revoca dell’autorizzazione ad invasare fino a 5,7 milioni di metri cubi, revoca causata dalla mancata effettuazione dei lavori di ripristino dell’efficienza del sistema di movimentazione e degli organi d’intercettazione dello scarico di fondo e della derivazione”. Quali sono i lavori di ripristino? Quelli necessari per ottemperare ai danni alle paratie rimaste bloccate in seguito a una scossa di terremoto risalente al 1968. Millenovecentosessantotto: quasi 43 anni fa. Per ripararla bisognerebbe svuotarla, ma è impossibile farlo senza mettere in pericolo i seminativi delle campagne circostanti. Sono stati stanziati fino ad oggi oltre 20 milioni di euro, ma i lavori non sono mai stati completati. Aspettiamo.
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Diga di Rosamarina.Inaugurata nel 1990 dall’allora Presidente della Regione Rino Nicolosi. Dopo il taglio del nastro la diga è rimasta vuota per anni perché mancavano le condutture. Poi è arrivata l’acqua (dal mare), ma essendo salata (strano!) si pensò di dotare la diga di un dissalatore interno. Altre spese. Può contenere fino a 40 milioni di metri cubi d’acqua, ma in ogni caso l’acqua raccolta non può essere utilizzata perché non è collegata all’acquedotto palermitano. Aspettiamo.
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Diga Garcia. La diga Garcia sul fiume Belice è alle origini della morte di un colonnello dei carabinieri, Giuseppe Russo, e di un insegnante suo amico, Filippo Costa, entrambi ammazzati dalla mafia il 20 agosto 1977. Il colonnello Russo indagava sugli appalti che inizialmente avevano assegnato i lavori della diga all’imprenditore Rosario Cascio, amico dello stesso Russo. Tuttavia, Cascio era stato forzatamente estromesso dai lavori a causa delle minacce e delle ritorsioni subite dalla cosca corleonese. Cosa Nostra, in pratica, aveva sovvertito i risultati della gara d’appalto, “riaffidando” i lavori al colosso imprenditoriale milanese di Enrico Lodigiani (chi si rivede!). Ma Russo aveva voluto vederci chiaro e si era messo sulle tracce dei corleonesi. E per questo è stato ammazzato. A raccontare la sua storia, e quella del professor Costa, ucciso semplicemente “perché forse sapeva”, è stato il giornalista del Giornale di Sicilia Mario Francese, anch’egli ammazzato il 26 gennaio di due anni dopo. Per tutti e tre gli omicidi il sicario è stato Leoluca Bagarella e i mandanti Totò Riina e Bernardo Provenzano. La realizzazione della diga da parte della Lodigiani è costata oltre i 300 miliardi di lire, a fronte di un costo iniziale previsto di 93 miliardi. I terreni su cui sorge appartenevano un tempo al capomafia Peppino Garda, che li aveva precedentemente ottenuti a basso costo e poi rivenduti agli enti pubblici interessati alla costruzione della diga a un prezzo di gran lunga superiore a quello d’acquisto. Per riuscire in questa lucrativa speculazione era stato evidentemente imbeccato dalla complicità istituzionale. Dopo la costruzione, la diga è rimasta per anni inutilizzata, perché l’argilla del corpo centrale aveva finito con l’asciugarsi e spaccarsi. Eppure, la Garcia potrebbe contenere fino a 60 milioni di metri cubi d’acqua. Attualmente si attende l’ultimazione dei lavori. Aspettiamo.
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Diga di Blufi. La vicenda della diga di Blufi sul fiume Imera Meridionale prende avvio nel 1989, quando l’Eas appalta i lavori di costruzione a un gruppo di imprese: la Astaldi, la Di Penta, la Impresem e la Vita. A colpire particolarmente è la presenza nel consorzio della Impresem, appartenente ai Salamone e ai Miccichè, due famiglie inquisite (indovinate un po’!) per mafia. Secondo l’EAS, alla sua ultimazione la diga avrebbe avuto una capacità di 22 milioni di metri cubi d’acqua. Ad oggi l’apporto della diga di Blufi al sistema idrico regionale si limita a soli 10 milioni. I lavori iniziano il 4 dicembre del 1990 e dovrebbero essere completati entro il dicembre del ‘94, per un importo totale di 180 miliardi di lire, finanziati dalla Cassa del Mezzogiorno. Dopo i primi sei anni di lavoro, tuttavia, ne seguono sette di paralisi per un contenzioso tra le aziende aggiudicatrici e l’EAS, che dichiara nullo l’accordo. Le imprese reagiscono chiedendo un risarcimento-danni di 30 miliardi, mentre il CIPE sblocca altri fondi per far riprendere i lavori, per un ammontare di 130 miliardi. In seguito, perizie suppletive e varianti d’opera comportano una spesa aggiuntiva di ulteriori 120 miliardi. Alla fine, l’Eas e le imprese trovano un accordo e risolvono il contenzioso miliardario. Ad oggi, tuttavia, la diga è ancora incompleta. Aspettiamo.
AGRIGENTO:
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Diga Furore. I lavori vanno avanti da vent’anni, a dispetto del nome. Il costo finora ammonta ad alcune centinaia di miliardi. Attualmente la diga è vuota e quindi inattiva: è necessario un lavoro di manutenzione ma l’appalto non è stato mai assegnato. Aspettiamo.
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Diga Fanaco. È costata 65 milioni di euro e ha una capacità massima di 19 milioni di metri cubi d’acqua. Solo che ne contiene pochissima, e quella che c’è è ricca di manganese, che la medicina correla al Morbo di Parkinson. Aspettiamo.
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Diga Piana del Leone. Potrebbe raccogliere milioni di metri cubi d’acqua, ne contiene al massimo due. Nell’ottobre del 1986, 24 anni fa,fu appaltato lo sfangamento e la pulizia del fondale: lavori per circa 33 miliardi di lire. Ad oggi la ditta aggiudicatrice attende ancora le autorizzazioni per iniziarli. Aspettiamo.
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Acquedotto Favara di Burgio. L’inchiesta Scacco matto, condottada due magistrati della DDA di Palermo, Gianfranco Scarfò e Rita Fulantelli, e dal sostituto procuratore di Sciacca Salvatore Vella, il 4 luglio 2008 ha portato all’arresto di 39 indagati tra politici, mafiosi e imprenditori. L’impianto accusatorio è basato su quasi tre anni di intercettazioni telefoniche e ambientali, che hanno permesso di ricostruire un sistema di tangenti e appalti pilotati nel settore delle opere pubbliche, tra le quali proprio l’acquedotto Favara di Burgio. Costato 66 milioni di euro, lungo più di 97 km, una volta ultimato servirà a collegare l’acquedotto Garcia all’acquedotto Dissalata diGela-Aragona. Speriamo di non aspettare a lungo.
GELA:
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Diga Gibbesi di Naro. Ha una capacità di invaso di 11 milioni di metri cubi, ma è vuota nonché priva degli stanziamenti per ultimarla, in quanto al centro di un contenzioso sul suo sfruttamento tra la provincia di Ragusa e quella di Agrigento. Aspettiamo.
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Diga Disueri. Potrebbe contenere 23 milioni di metri cubi, ma deve limitarsi a 2 milioni e mezzo. La procura di Caltanissetta ha accertato che per l’aggiudicazione dei lavori la ditta SafabS.p.A. (che ha curato, tra le altre cose, la realizzazione del parcheggio di piazza Vittorio Emanuele Orlando di Palermo, sequestrato dai carabinieri subito dopo la sua inaugurazione per gravi carenze strutturali) ha versato tangenti per un totale di 110.000 euro a due dirigenti del Genio Civile di Caltanissetta, Santo Giusti e Antonio Castiglione.
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Diga Comunelli. Potrebbe contenere fino a otto milioni di metri cubi ma è semivuota e soggetta da anni a un’azione di interramento. Le pendici del bacino inoltre sono state valutate come franabili. La sua realizzazione è stata oggetto di indagine da parte della procura di Caltanissetta. I magistrati del nisseno, da sempre un’area politicamente “rossa”, nel 2001 hanno scoperto un filo che legava proprio le coop rosse alla mafia. Durante l’indagine è stato arrestato Michele Cavallini, amministratore della Iter di Ravenna, costruttore della diga citato nei verbali d’accusa dal pentito Giuseppe Madonia. Al momento la diga è praticamente inutilizzabile. Aspettiamo.
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Dissalatore di Gela. Il dissalatore di Gela ha il compito di dissalare l’acqua marina e di riempire le tre dighe gelesi appena citate. È in mano in parte all’ENI e in parte all’imprenditore in odor di mafia Pietro Di Vincenzo, di cui si è già parlato. In pratica, l’ENI vende l’acqua a Siciliacque, che la rivende a Caltaqua (l’ATO di Caltanissetta), che la distribuisce per l’uso civile. Il governo regionale, consocio di Siciliacque, non paga il gestore ENI e il suo servizio di dissalatura dal 2005 (giunte Cuffaro e Lombardo). Un debito da 140 milioni di euro che ha portato il passivo di bilancio della Raffineria di Gela S.p.A. a 270 milioni. L’ENI ha minacciato la chiusura dell’impianto. Aspettiamo.
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Acquedotto Dissalata Gela-Aragona. Nel 2009 è stato assegnato l’appalto per la costruzione di un condotto che colleghi il dissalatore di Gela alle condotte dell’area agrigentina. Speriamo di non aspettare a lungo.
ENNA:
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Invaso di Pozzillo. Il lago Pozzillo è l’invaso artificiale più grande della Sicilia, realizzato tramite una diga sul fiume Salso (affluente del Simeto), costruita in prossimità di Regalbuto. Si trova al centro dell’isola, nella provincia di Enna tra i Monti Erei e i Monti Nebrodi. Attualmente sembrerebbe ben funzionante. Strano. Non aspettiamo niente, piuttosto facciamo gli scongiuri.
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Diga dell’Ancipa. Di alcuni risvolti giudiziari legati alla costruzione di questa diga è stato già detto. Inizialmente la gara d’appalto prevedeva una spesa complessiva di 55 miliardi di lire. I lavori, iniziati nel 1949 (61 anni fa) e mai completati, già nel 1987 avevano superato una spesa di 84 miliardi. La diga, gestita da ENEL Green Power, potrebbe contenere 34 milioni di metri cubi, ma ne contiene solo 4. Il motivo? Presenta delle crepe, segnalate da più di trent’anni e mai riparate. Cuffaro, nella sua veste di commissario straordinario (in tutti i sensi), aveva previsto di portare la capacità almeno a 13 milioni. Ad oggi, la capacità è arrivata a 10 milioni, con un incremento annuo inferiore al milione. Aspettiamo.
CATANIA:
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Diga Pietrarossa. Un tourbillon di inchieste e arresti accompagna l’esistenza di questa tormentata diga. I lavori sono iniziati nel 1989, appannaggio dell’ormai famigerato duo Lodigiani-Rendo. Per la sola diga, progettata a fini irrigui, lo stanziamento iniziale della Cassa del Mezzogiorno è di 170 miliardi di lire. I lavori iniziano abusivamente, sprovvisti dei permessi della Soprintendenza. Dopo i primi scavi, gli operai si imbattono nei resti di una villa d’età romana. Scatta una prima inchiesta della Procura di Enna, ma la ditta continua a lavorare per altri tre anni. Del resto un verbale della sezione archeologica dice che non c’è alcun reperto. Strano, perchè tre giorni prima un altro verbale parla di frammenti di ceramiche. Il sito archeologico, ovviamente, ha subito danni irreparabili. Nel 1995 spunta un’altra grana: vengono verificate diverse lesioni della struttura, che l’impresa attribuisce ad uno smottamento del terreno causato dal terremoto del 1990. Secondo i magistrati della Procura di Caltagirone, invece, le lesioni sono state provocate da errori nella costruzione. Tecnici, funzionari e impresa costruttrice vengono accusati di avere concertato una truffa per ottenere un ulteriore finanziamento di circa 20 miliardi. Agli inizi del ’98 la procura di Enna mette sotto sequestro il cantiere e invia 12 avvisi di garanzia per i reati di abuso d’ufficio, rifiuto di atti d’ufficio, deturpamento di bellezze naturali e archeologiche. Costata 140 miliardi di lire, la diga è ancora incompleta e attualmente sottosequestro. Dovrebbe avere una capienza di 35 milioni di metri cubi, ne contiene solo 16. Aspettiamo.
TRAPANI:
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Dissalatore di Nubia. Anche quella del dissalatore di Nubia è una vicenda senza pace. In passato gestito dall’EAS, ora partecipato sia da Siciliacque sia dall’onnipresente Di Vincenzo, da vent’anni continua a passare senza sosta da un problema all’altro. Una caldaia che scoppia, alghe che entrano inspiegabilmente negli ingranaggi delle pompe di sollevamento, costanti carenze di fondi (e conseguenti scioperi del personale), manutenzione sempre straordinaria e mai definitiva. In media, si blocca nove giorni su sessanta. Le autobotti dei privati sono ovviamente l’unica alternativa: e questo dà ai privati la possibilità di imporre a loro discrezione tariffe, giorni e orari di distribuzione. Aspettiamo (spesso).
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Acquedotto di Montescuro-ovest. Il rifacimento dell’acquedotto Montescuro Ovest, che serve l’intera area della Valle del Belice, è atteso da diversi anni: troppo vetusti gli impianti attuali, soggetti a perdite che in alcuni tratti superano l’80%. Peccato che i lavori siano stati inizialmente assegnati a un consorzio di imprese al quale partecipava la Safab, i cui vertici sono stati azzerati dall’inchiesta nissena sulla diga Desueri. Anche a Trapani i dirigenti Safab attraversano guai giudiziari, accusati di aver intessuto “stretti rapporti” con l’imprenditore gelese Sandro Missuto, arrestato il 2 luglio del 2009 nell’ambito dell’operazione antimafia Cerberus con l’accusa di aver operato come prestanome del defunto boss geleseDaniele Emmanuello. I fatti giudiziari risalgono al novembre 2010, quindi è ancora tutto in stand-by. Aspettiamo.
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Serbatoi Paceco, Trinità, Rubino, Zafferana. Tutti finalizzati a uso irriguo. Il Servizio Nazionale Dighe non ne autorizza il riempimento perché mancano i collaudi. Potrebbero complessivamente contenere quasi cinquanta milioni di metri cubi d’acqua: ne contengono due-tre milioni ciascuno. Aspettiamo.
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Invaso di Lentini. Il monumento siciliano all’inutile, allo spreco e all’incompleto. Si estende su una superficie enorme e del tutto ingiustificata per l’uso che se ne fa: 559 km quadrati, più grande del Principato di Andorra. È costato oltre 800 miliardi di lire e potrebbe contenere fino a 127 milioni di metri cubi d’acqua. E invece ne contiene tra i quindicimila e i trentamila metri cubi. Una pozzanghera! La stima d’utilizzo, evidentemente, è stata “appena” sovradimensionata. In origine doveva servire le province di Catania e Siracusa. L’acqua atta allo scopo sarebbe arrivata all’invaso di Lentini da tre sistemi: il Salso-Simeto, l’Ancipa, e la diga Ogliastro (quest’ultima, in realtà, perennemente a secco). Di fatto se non ci arrivasse almeno l’acqua del Simeto l’invaso sarebbe una specie di immenso acquitrino, sempre semivuoto. In ogni caso, il volume invasato non potrebbe essere utilizzato appieno perché gli impianti di sollevamento sono troppo piccoli. E gli agricoltori della zona (ricca di agrumeti) finiscono col rivolgersi ai proprietari dei pozzi privati, che ovviamente fanno affari d’oro. Per le altre colture i danni non si contano. Non si sa cosa, ma aspettiamo.
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Invaso Ragoleto. Sul fiume Dirillo, è gestito dall’ENI a uso industriale. Sono continui i problemi causati dalle sedimentazioni di fango che otturano gli scarichi di fondo e le opere di presa del corpo diga. Oltre all’uso industriale, l’invaso dovrebbe (“dovrebbe”) servire anche il Consorzio di Bonifica della zona, perché le serre e le colture ortofrutticole protette sono tantissime. Solo che non può farlo, per i “problemi fangosi” sopra menzionati. La conseguenza è che i raccolti anche qui dipendono per buona parte dai pozzi privati. Aspettiamo.
ISOLE EOLIE:
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Dissalatore di Lipari.Un metro cubo d’acqua prodotto da un dissalatore costa circa due euro e cinquanta. Se, invece, l’acqua arriva a un’isola con una nave cisterna, il suo costo al metro cubo è di quasi otto euro. Le Eolie possono contare solo sul dissalatore di Lipari (indovinate di chi è: sì, lui, Di Vincenzo…), ma mancano le condutture sottomarine per raggiungere le altre isole. Quella tra Lipari e Vulcano, ad esempio, è stata iniziata ma mai finita. E del resto non esiste un reale interesse a ultimare queste condutture: ne verrebbero meno i lauti guadagni che i gestori delle navi-cisterna possono spartire con i politici. Si tratta di un business da sedici milioni di euro all’anno. Se poi l’unico dissalatore che c’è si blocca, o non funziona a pieno regime, come capita troppo spesso, i guadagni sono ancora più alti. Ma noi, sperando, aspettiamo.
La storia e le sventure del sistema idrico siciliano non finiscono qui. In questo quadro manca ancora un attore decisivo. Gli ATO. Per rendersi conto meglio del meccanismo perverso che regge gli Ambiti Territoriali Ottimali, occorre fare un passo indietro. Il 75% del pacchetto azionario di Siciliacque S.p.A., come detto, non è stato acquistato da una sola azienda ma da un consorzio di imprese, che hanno costituito l’Idrosicilia S.p.A.. Vero è che la Veolia Environment fa la voce grossa all’interno del consorzio, ma partner importante ed economicamente “sostanzioso” si rivela essere il gruppo Pisante. Di origini pugliesi, la famiglia di Ottavio e Giuseppe Pisante ha costituito negli anni una vera e propria lobby di livello internazionale nella gestione dell’acqua e dei rifiuti. Peccato che per raggiungere vette così elevate il gruppo Pisante abbia lasciato alle proprie spalle una storia controversa, accompagnata da conoscenze ambigue quando non criminose. È la storia della Acqua S.p.A.. Emigrati a Milano dalla Puglia, Giuseppe e Ottavio Pisante fondano la Acqua S.p.A. e iniziano a lavorare con Paolo Scaroni, attuale amministratore delegato dell’ENI, e con Gianfelice Rocca e la sua Techint, che verrà poi travolta dalle inchieste del pool di Mani Pulite. Quando esplode la bomba di Tangentopoli nel gennaio del ‘93, il gruppo Acqua è già diventato un impero finanziario dei servizi ambientali: 2.400 dipendenti, 500 miliardi di fatturato, 87 società controllate solo in Italia. Già verso la fine del 1992 la procura di Manfredonia indagava sui Pisante per un affare di tangenti versate per un appalto da 75 miliardi di lire, relativo ai nastri trasportatori del porto di Manfredonia. Ottavio Pisante finisce in carcere. E lì confessa nomi su nomi, rivelando tutte le tangenti versate in ogni parte d’Italia. Anche suo fratello Giuseppe viene arrestato, ma è meno disposto a collaborare. Nel frattempo, a Milano si avvia un’altra inchiesta, nella quale è passata a setaccio la Emit, un’altra azienda di famiglia. Negli anni nuovi accertamenti giudiziari colpiranno ancora i fratelli Pisante presso altre procure: a Pavia i Pisante sono indagati per l’appalto per il teleriscaldamento, a Vieste per i lavori alla discarica, a Roma per la metropolitana, a San Severo di Puglia per l’installazione di una centrale termoelettrica in contrada Ratino, affidata (il grande ritorno!) alla Techint di Rocca.
La tempesta di Tangentopoli, tuttavia, passa presto: le condanne inflitte ai dirigenti del gruppo, Ottavio e Giuseppe in testa, vengono patteggiate, alcuni processi finiscono con l’assoluzione, alcuni reati vengono prescritti. Il gruppo Pisante si riorganizza e, attraverso un complesso sistema di controllate, partecipate e scatole cinesi, rientra prepotentemente nel mercato del servizio ambientale, divenendo in breve tempo l’impero che è oggi. Le alleanze stavolta sono più salde e al contempo più nascoste, più sotterranee: non a caso l’Antitrust nel 1994 aveva avviato una verifica sul gruppo Pisante e i suoi affiliati.
Tra le alleanze stipulate nel post-Tangentopoli, la più significativa è sicuramente quella con Veolia. Da allora, i Pisante e la Veolia si sono spartiti in Italia la grossa e sostanziosa torta dei servizi ambientali attraverso la già citata Emit, ma soprattutto attraverso la Siba, che gestisce impianti idrici, acquedottistici e depurativi in tutta la penisola. Ecco perché Veolia e Pisante si devono considerare come la chiave interpretativa per comprendere la Sicilia dell’acqua e dei rifiuti. Le due multinazionali costruiscono un modello di business molto spregiudicato, che spesso sconfina al di là della legge. Lo mettono in pratica per la prima volta a Latina, dove acquisiscono (come faranno poi in Sicilia), il 75% del servizio idrico pubblico attraverso un consorzio di imprese, l’Acqualatina S.p.A.. Un’inchiesta della procura di Latina (che ha visto coinvolto e condannato anche l’ex-ministro Paolo Cirino Pomicino) ha portato all’azzeramento e all’arresto dell’intero consiglio di amministrazione dell’Acqualatina. L’accusa è di avere costruito un sistema di così detti “appalti in house”per l’aggiudicazione e la gestione dei servizi. In pratica, viene indetta una finta gara d’appalto e i soldi degli appalti, attraverso un sistema di tangenti, vengono spartiti “tra amici”, ossia tra politici e dirigenti del vecchio gestore pubblico e del nuovo gestore privato. E in provincia di Latina la prima conseguenza di questo “modello” l’hanno vissuta gli utenti, che hanno ricevuto bollette con aumenti che arrivavano fino al cento per cento.
Ma i Pisante non si arrendono e decidono di esportare questo modello di business anche in Sicilia, approfittando proprio dell’emergenza idrica del 2002. Nel 2004, dunque, entrano come soci privati del nuovo gestore dell’acqua, Siciliacque S.p.A.. Insieme a Veolia, si aggiudicano il 75% del pacchetto azionario, esattamente come a Latina. Intervengono anche nell’ambito dei rifiuti, si interessano agli appalti per la costruzione del ponte sullo Stretto, cercano di aggiudicarsi la realizzazione dei primi termovalorizzatori isolani. Un gruppo multitasking, dove li toccate suonano! A Messina i Pisante costituiscono, attraverso la Siba e la Emit, la Galva S.p.A, che a sua volta controlla la società mista Messinambiente, incaricata della gestione dei rifiuti. Stranamente dal 7 luglio 2010 l’azienda è indagata per frode nelle pubbliche forniture. Il cda è stato azzerato e Messinambiente è già fallita.
E l’acqua? Come intervengono i Pisante nel servizio idrico isolano? Lo schema è sempre lo stesso, la costruzione di un cartello monopolistico per la gestione e la distribuzione del servizio, con la compiacenza (quando non con la complicità) dei politici. Per farlo, si consorziano con un’altra società molto discussa, la Altecoen di Franco Gulino, rinviato a giudizio a Messina per concorso esterno in associazione mafiosa (assurdo!) e coinvolto anch’egli nello scandalo di Messinambiente. I due fratelli si spartiscono i compiti. Giuseppe, attraverso la Emit e la Fineco, l’ennesima società di famiglia, si occupa di raccogliere l’acqua negli invasi, di prelevarla e di trasportarla nelle reti di distribuzione dell’isola, rivendendola ai 9 ATO provinciali. Ottavio, invece, attraverso la società Idrica S.p.A., che controlla la Galva S.p.A., partecipa alla gestione degli ATO provinciali (in particolare di quelli di Palermo, Agrigento e Caltanissetta) e compra l’acqua da suo fratello, per poi rivenderla ai cittadini a prezzi esorbitanti. A Palermo i Pisante sono presenti con l’8% nel pacchetto azionario dell’ATO Acque Potabili Siciliane. Ad Agrigento detengono il 10% dell’ATO Girgenti Acque, a Caltanissetta il 37% dell’ATO Caltaqua.
A chiosa finale, ecco nel dettaglio la situazione dei 9 ATO provinciali, precedente la legge di riconversione pubblica dell’acqua risalente al maggio 2010:
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PALERMO: a Palermo la Acque Potabili Siciliane(APS) aveva ottenuto una concessione trentennale degli acquedotti e delle fognature, che prevedeva 1.261 milioni di euro di investimenti complessivi, di cui quasi 300 già coperti da finanziamenti statali ed europei a fondo perduto. La APS è già fallita e messa in liquidazione.
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CATANIA: raggruppamento aggiudicatario è stato la Sidra S.p.A., a sua volta controllata dalla Acoset S.p.A., a sua volta controllata dalla società mista Servizi Idrici Etnei S.p.A.. La concessione trentennale prevedeva investimenti per circa 1.192 milioni di euro. Nel luglio del 2006 è stata accertata la presenza del vanadio nell’acqua comunale. Il vanadio è stato associato dalla medicina al cancro ai polmoni. Tuttavia la Acoset, evidentemente dotata di un’invidiabile faccia di bronzo, ha ammesso la presenza del vanadio nelle sue acque solo quattro anni dopo, nel 2010. Allo stato attuale, non è stato preso alcun provvedimento, se non quello di dichiarare l’acqua non potabile. La Acoset già nel 2008 accusava un passivo di bilancio di 50 milioni di euro (a crescere).
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CALTANISSETTA: raggruppamento aggiudicatario è stato Caltaqua, il cui socio di maggioranza era la multinazionale spagnola Aqualia. I Pisante erano presenti con una quota di minoranza, rappresentata dalla Galva. Gli investimenti previsti in questa provincia ammontavano a mezzo miliardo di euro. La trasmissione di RAI TRE “W l’Italia diretta”, condotta da Riccardo Iacona, nella puntata del 24 luglio 2007 aveva mostrato i nisseni nell’atto di lavarsi e cucinare con la minerale acquistata al supermercato. Da allora non è cambiato niente. Inoltre, negli anni di gestione di Caltaqua, l’acqua arrivava nelle case ogni 10-15 giorni e le bollette erano aumentate vertiginosamente. E non è finita qui. La puntata di Presa diretta del 7 febbraio 2010, trasmissione di RAI TRE condotta sempre da Icona, ci fa sapere che l’attuale sindaco Angelo Fasulo ha dovuto emanare un’ordinanza di non potabilità per l’acqua proveniente dal dissalatore. Perché? Perché sono state rilevate concentrazioni altissime di arsenico, mercurio, benzene, cloruro di vinile, piombo, cadmio, nichel. Tutti presenti con valori da 4/6 volte fino a 1 milione di volte oltre i limiti consentiti dalla legge. Non solo: il dissalatore del petrolchimico dell’ENI ha inquinato anche l’acqua proveniente dalle falde sotterranee, che si trovano in un’area a soli 15 km di distanza dal dissalatore. Il petrolchimico dell’ENI, è bene tenerlo a mente, gestisce anche il potabilizzatore dell’invaso Ragoleto. L’ordinanza di non potabilità delle acque gelesi, ovviamente, vige tuttora.
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AGRIGENTO: raggruppamento aggiudicatario èstato Girgenti S.p.A., il cuiamministratore delegato Giuseppe Giuffrida già nel 2007 era costretto ad ammettere un esposto debitorio di 12 milioni di euro. Tra le aziende consociate spiccava la Nestlè water, che fa capo all’omonima multinazionale Nestlè e che in più di una località si occupava dell’emungimento delle acque dai pozzi. La Nestlè ha violato ripetutamente i limiti di legge previsti per l’emungimento, contribuendo al depauperamento delle risorse idriche del territorio e provocando il quasi prosciugamento della sorgente Capo Favara.Nella provincia di Agrigento il piano trentennale della concessione idrica della Girgenti prevedeva investimenti per 600 milioni di euro, di cui 100 milioni già coperti da finanziamenti statali ed europei a fondo perduto. Tuttavia, gli abitanti di quella città che Pindaro nominò “la più bella dei mortali” vivono ormai da anni una situazione oltre l’inverosimile. La puntata di Presa diretta sopra citata ne ha fornito un’accurata testimonianza. Negli anni di privatizzazione dell’acqua gli agrigentini pagavano le bollette più care d’Italia, 445 euro di media all’anno contro una media nazionale di 243 euro. Agrigento (la cui rete idrica ha perdite del 54%) è disseminata di vecchie cisterne costruite con l’eternit, che contiene amianto, e di cisterne “fai da te”, se così si possono chiamare cortili interni e tetti di garage. Tutti, ma proprio tutti, sono costretti a raccogliere l’acqua piovana, bene indispensabile, con qualsiasi tipo di contenitore: pentole, bidoni, secchi, vasche. Ovviamente, d’estate le precipitazioni diminuiscono e la situazione si aggrava ulteriormente, e comincia il solito via vai delle autobotti. L’acqua non viene distribuita simultaneamente all’intera città, ma quartiere dopo quartiere, e per averla in casa propria si attende anche per settimane. E non sempre arriva depurata, ma sporca e fangosa. Un operaio, intervistato dai giornalisti inviati dalla trasmissione, si chiede e ci chiede: “Poveri sì, ma sporchi perché?”.
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ENNA: raggruppamento aggiudicatario è stato Acqua Enna S.p.A., che si era accollata investimenti per 300 milioni di euro. All’interno di Acqua Enna agivano ben quattro S.p.A.. La prima è l’Enìa S.p.A., una multiutility nata dalla fusione avvenuta nel marzo 2005 tra AGAC, AMPS e TESA, aziende municipalizzate che operavano nel settore dei servizi pubblici nelle province di Parma, Piacenza e Reggio Emilia. Enìa fornisce servizi di pubblica utilità: gas, energia elettrica, acqua, rifiuti, teleriscaldamento, servendo un bacino di oltre un milione di abitanti; la seconda è la GGR S.p.A., il cui ruolo appare alquanto bizzarro, dato che risulta essere un’impresa edile, senza neanche un sito web; la terza è Sicilia Ambiente S.p.A., a sua volta soggetta a EnnaEuno S.p.A., società in liquidazione e (come ti sbagli!) sotto inchiesta presso la procura di Enna; la quarta è la Smeco S.p.A., società che si occupa della depurazione e del trattamento delle acque, anch’essa avvolta nel mistero e priva di un sito web.
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SIRACUSA: la gestione del servizio era affidata alla Sogeas, che da municipalizzata si è privatizzata in S.p.A.. Gli investimenti previsti si aggiravano intorno ai 500 milioni di euro.
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TRAPANI e MESSINA: i servizi non sono mai stati aggiudicati.
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RAGUSA: la gara d’appalto è stata bloccata per la ferma opposizione di numerosi sindaci e di un comitato cittadino e studentesco. L’acqua in provincia di Ragusa è miracolosamente rimasta pubblica.
La lotta dei siciliani per l’acqua pubblica, partita da Ragusa con forza e vigore, si è subito ampliata a macchia d’olio, coinvolgendo nel tempo politici e popolazione civile. Nel 2003 a Catania nasceva il Forum internazionale per l’acqua pubblica. Dopo il Decreto Ronchi del 2009, che in pratica obbligava i comuni a privatizzare, la protesta si è diffusa a livello nazionale, fino a concretizzarsi nella campagna referendaria per l’acqua pubblica promossa dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua. In Sicilia un primo e fondamentale successo a livello legislativo è venuto dalla finanziaria regionale approvata l’1 maggio 2010, che conteneva un emendamento (l’articolo 50), proposto dal Pd e votato anche dal Pdl Sicilia, che azzerava la precedente gestione privata o semiprivata. Con 53 voti a favore e 25 contrari, l’Assemblea regionale siciliana ha approvato, a scrutinio segreto, il ritorno alla gestione pubblica dell’acqua in Sicilia. Aboliti gli Ato Idrici, adesso si dovrà tornare a legiferare sulla materia. Nei fatti, il sistema privato si è rivelato fallimentare e distruttivo.
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