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Acqua pericolosa

di Marina Covati

un’immagine del relitto del Titanic

 

Come sostiene Giancarlo Costa «il mare cela una vecchia canaglia scaltra e pericolosa» e «in mare non c’è nulla di inaffondabile». Con questo aggettivo furono definite, soprattutto all’inizio del XX secolo, epoca di grande fiducia nell’uomo nella scienza e nella tecnica, alcune navi oggi ricordate per gli incidenti più tragici. Una di queste fu proprio il transatlantico Titanic, 46.000 tonnellate di orgoglio dell’anglo-americana White Star Line.

 

Un fatale concentrato di forza della natura ed errore umano ne determinò la sorte nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912: da una parte l’importante distaccamento di iceberg dai ghiacciai groenlandesi favo-rito dalla stagione particolarmente calda, l’assenza della luna e il mare calmissimo che rendevano difficile l’avvistamento delle montagne di ghiaccio galleggianti, dall’altra parte una poco accurata comunicazione a bordo e l’alta velocità. A coronamento della tragedia si aggiunsero la bassa temperatura dell’acqua e l’insufficiente numero ed errato carico delle scialuppe di salvataggio.

 

“Inaffondabile” era anche stata definita a suo tempo dalla stampa il transatlantico italiano Andrea Doria (29.000 tonn), per la grande sicurezza data dalla struttura e dalla tecnologia avanzata a bordo, e per la dotazione di nuovi e moderni mezzi di salvataggio. L’Andrea Doria, tuttavia, non fu vittima di un iceberg ma di una altro temibile ostacolo alla navigazione, la nebbia. A 160 miglia dal faro di Nantucket il transatlantico italiano incontrò i soliti banchi di nebbia della zona; il capitano fece prendere tutte le dovute precauzioni, tranne quella dell’abbassamento della velocità (scelta molto comune dovuta al voler rispettare a tutti i costi gli orari di viaggio). In senso contrario arrivava il transatlantico svedese Stockholm (12.000 tonn); un’errata lettura dei radar da parte svedese e il reciproco fraintendimento sulle rotte prese dalle navi portò allo speronamento dell’Andrea Doria, urto reso più violento dalla velocità combinata delle due navi e dalla prua rin-forzata della Stockholm.

 

Lo squarcio permise l’inondamento dei serbatoi di sinistra, il quale provocò a sua volta una continua e pericolosa inclinazione. Durante (e in seguito) all’abbordo persero la vita cinquantadue persone tra i passeggeri alloggiati nella cabine colpite e alcuni marinai svedesi. La nebbia, «l’assassino silenzioso del mare», provocò un similare incidente tra il piroscafo inglese Empress of Ireland (14.000 tonn) e la carboniera norvegese Storstadt, quest’ultima anch’essa dotata di prua rinforzata come la Stockholm. Questo incidente fu, tuttavia, più tragico poiché la Empress si inabissò in soli quattordici minuti, portando con sé 1012 delle 1147 persone a bordo.

 

Un assassino decisamente poco “silenzioso” è costituito dalla cattiva condizione meteomarina. Il connubio di acqua e vento durante una tempesta stressa fortemente la struttura dell’imbarcazione e può arrivare a provocare anche gravi danni, soprattutto se questa non è in più che buone condizioni. Una fortissima tempesta abbattutasi sul Lago Superiore dei Grandi laghi dell’America settentrionale nella giornata del 10 novembre 1975 arrivò a spezzare in due tronconi e ad affondare una nave cargo di 13.000 tonnellate come la Edmund Fitzgerald, portando con sé tutto l’equipaggio.

 

Anche in porto una tempesta può essere pericolosa, se non fatale come fu per il mercantile inglese London valour, schiacciato dalla forza del vento contro la di-ga foranea del porto di Genova e naufragato con venti membri dell’equipaggio il 9 aprile 1970. Oltre al naufragio in sé, le cattive condizioni meteomarine sono un difficile ostacolo anche per le operazioni di salvataggio dei naufraghi: una forte tempesta marina nel Golfo di Guascogna fu la causa dell’inabissamento del mercantile italiano Marina d’Equa (32.000 tonn) e del tardo soccorso prestato all’equipaggio, il quale perse la vita anche per gli inadeguati mezzi di salvataggio in dotazione (29 dicembre 1981).

Se la presenza di iceberg, forti tempeste e fitte nebbie sono eventi comuni che, se ben affrontati, possono essere superati senza danni, la stessa cosa non può essere detta per le onde anomale, considerate oggi come una delle cause principali di affondamento in mare aperto e responsabili del naufragio di oltre 200 superpetroliere e navi container.

 

Spesso i maremoti vengono erroneamente definiti in questo modo, ma tra i due fenomeni vi è una netta differenza: le onde dei primi sono causate da forti terremoti sottomarini, mentre le onde anomale possono formarsi in acque calme oppure generarsi grazie alla potenza di tifoni. Le cause delle onde anomale del primo tipo non sono state ancora veramente scoperte, rendendo il fenomeno imprevedibile ed estremamente pericoloso, soprattutto dato che le attuali navi e piattaforme petrolifere sono progettate per resistere ad onde fino ai quindici metri, mentre queste onde mostruose arrivano a toccare altezze doppie.

 

Proprio due diverse onde anomale alte trenta metri travolsero e danneggiarono nei primi mesi del 2001 le navi da crociera Bremen e Caledonian Star, la prima delle quali rimase senza elettronica di bordo per due ore, andando alla deriva e generando il panico tra passeggeri. Sempre un’onda ano-mala della stessa altezza ma provocata dall’uragano Luis, si abbatté sulla nave da crociera Queen Elizabeth II nell’Atlantico settentrionale nelle prime ore dell’11 settembre 1995, facendo quasi miracolosamente pochi danni e nessun ferito.

 

Tutta questa serie di incidenti mostra chiaramente come, nonostante nell’ultimo secolo siano stati e continuino tuttora ad essere costruiti gioielli di ingegneria navale sempre più sicuri e avanzati tecnologicamente, la natura resti sempre un passo avanti all’uomo. Non esisterà mai una sicurezza certa mentre non si è con i piedi sulla terraferma e quando le acque cominciano veramente a scatenarsi anche i comandanti di più lungo corso cominciano a pregare.

 

Circa l'autore

Giorgio Triani

Sociologo, giornalista, consulente d’impresa.

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