
Annamaria: storia di una sopravvissuta all’alluvione del Polesine
di Pietro Veronese
un’immagine d’archivio sull’alluvione del 1951
14 novembre 1951: la prima rotta di Vallice di Paviole, le successive di Occhiobello e Malcantone, il camion della morte di Frassinelle, i soccorsi che non arrivavano. Quel novembre di 60 anni fa nel Polesine si consumò -per estensione delle terre allagate e per volumi d’acqua esondati- la più grande alluvione che l’Italia subì in epoca contemporanea.
A raccontarcelo Annamaria, sopravvissuta insieme alla famiglia al tragico evento. Terza di sette figli, all’epoca aveva 19 anni e abitava vicino a Canalbianco, una delle zone tra le più colpite nell’alluvione.
Cosa ricorda di quella giornata?
“Avevo 19 anni. Ne è passato di tempo ma non si può dimenticare quello che abbiamo vissuto. La forza dell’acqua, la paura costante, un lago infinito di melma e sterpaglie. La nostra era una famiglia numerosa, come tante di allora. Abitavamo vicino al Canalbianco, tra Arquà Polesine e Bosaro. Sono la terza di sette figli. Dopo che la mia adolescenza era passata tra la paura delle bombe e delle retate nazifasciste, mi accingevo a distanza di pochi anni, ad affrontare un’altra dura prova”.
Sette fratelli, la famiglia numerosa, la seconda guerra mondiale terminata da qualche anno soltanto. Come si viveva in quel periodo?
“C’era una povertà che adesso non è possibile neanche immaginare. Si viveva con poco o niente. Chi aveva una bestia era considerato ricco perché aveva cibo assicurato per un lungo periodo di tempo. Anche le lenzuola erano considerate una modesta ricchezza. Il giorno dell’alluvione, qualche ora prima delle prime rotte, l’acqua ci porto via le lenzuola appena lavate.”
Erano state previste le rotte degli argini?
“Sapevamo che la situazione era più grave del previsto ma mai avremmo pensato che sarebbe successa una disgrazia di così grandi dimensioni.”
Squilla il telefono e Annamaria si alza per rispondere. Nel frattempo guardo con attenzione e stupore per l’ennesima volta la prima pagina del mio blocchetto. Qualche giorno prima mi ero recato all’archivio di stato di Rovigo e avevo raccolto dati sull’alluvione.
Allarmanti. Così, con gli occhi, passavo dalla misura delle tre bocche di rotta (220 m quella di Vallice di Paviole, 204 m quella in località Bosco e 312 m quella di Malcantone) alla cifra del massimo volume d’acqua invasato sul suolo polesano (quello cioè accumulatosi sul territorio dal momento della rotta a quello dell’inizio dello scarico a mare): oltre tre miliardi di metri cubi d’acqua. Dalla superficie allagata, pari a circa il 52% del territorio dell’intero Polesine, fino al numero delle vittime umane (circa cento persone). Il paesaggio di più di metà del Polesine cambiò radicalmente per diversi mesi. Là dove c’era terra e campagna, esisteva soltanto acqua. E fango. Nient’altro.
Mi racconti quei momenti. Come fece a salvarsi?
“Eravamo tutti al primo piano della casa. Tutto intorno acqua e nient’altro. Mentre mio padre divideva il poco cibo che ci era rimasto, con il cuore gonfio, raccogliemmo le cose più importanti in grandi fazzoletti. Poi ricordo una scala. Tutti giù dalle finestre sulla barca dei soccorritori. Alla fine salimmo su una vecchia camionetta che ci portò fino a Monselice, nelle scuole dove dormimmo una notte su balle di paglia. Il giorno dopo, una signora prese me e una mia sorella a casa sua per 15 giorni. Gli altri miei cari furono accolti da altre famiglie.”
Lontani da casa e divisi. Come riusciva ad essere informata su quello che stava accadendo?
“L’unico mezzo di informazione erano gli annunci radio e il Gazzettino. Fu grazie alla carta stampata che venni a sapere che uno dei miei fratelli aveva salvato due soldati sorpresi dall’acqua mentre stavano andando in operazione di salvataggio.”
Quando riuscì a tornare a casa e a riabbracciare i suoi cari?
“Due settimane dopo il tragico evento tornammo a casa. Le mura erano rimaste in piedi ma il pian terreno era pieno di fango e la legna era tutta bagnata. Quell’inverno tra l’umidità delle mura impregnate d’acqua e la legna che non bruciava non fu facile riscaldarsi. Sapevamo che niente sarebbe stato come prima”.
Cibo, vestiti: da chi arrivarono gli aiuti più importanti?
“Il Comune attraverso le distribuzioni settimanali ci portava viveri come la pasta e i quadratini di marmellata, qualche lira, pochi vestiti perché erano troppo logori, dei panni qualche lenzuola e una stufa che fu fondamentale per passare l’inverno. Oggi, a distanza di così tanti anni, non posso fare a meno di pensare che, nonostante tutto, io e la mia famiglia siamo stati fortunati perché abbiamo potuto conservare la casa e non siamo stati colpiti da lutti”.
la statale che collega Adria a Rovigo in un’immagine d’archivio
La signora si alza per mettere legna nella stufa anche se probabilmente non ce n’era bisogno ma mi spiega che quello di mantenere sempre vivo il fuoco è un gesto che lei compie spesso come ricordo dei tempi passati, come abitudine degli anni dove si stava tutti intorno ad un’unica pira.
Poi mi sorride e mi ringrazia perché “se anche abbiamo ricordato una triste storia, fa piacere che un giovane si informi sul passato”.
La ringrazio a mia volta e decido che l’intervista poteva terminare ma mentre raccolgo il mio blocchetto per gli appunti e la penna il mio sguardo si ferma su una foto appesa a un muro che raffigurava una donna che cucinava sopra un’ argine, tutto intorno i campi allagati. Sotto la foto, una scritta: “Ne l’abbandono il caro luogo ancora sorriderà, se tu sorriderai” .
Annamaria se ne accorge. “Quella donna è mia sorella – esclama – qualche settimana dopo l’alluvione. Sta cucinando per tutti. Ricordo quel giorno come fosse ieri”. Poi un sorriso. La frase, tratta dalla lirica ‘Consolazione’ di Gabriele D’annunzio, è simbolo di un lento ma deciso ritorno alla vita. Un po’ come quello che Annamaria e la sua famiglia hanno vissuto dopo l’alluvione di 60 anni fa.
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