
Acqua tra spreco e assenza. Il paradosso che divide il mondo
di Valentina Maria Teresa Fiume
Mentre in Italia si festeggia ancora per la mancata privatizzazione dell’acqua, in molti altri paesi, soprattutto africani, l’acqua non è nemmeno un bene pubblico. E, considerata da sempre sorgente di vita, oggi si è paradossalmente trasformata in un’inesauribile fonte di morte.
Lo scenario è sempre lo stesso: da un lato i “potenti”, abili manovratori di un sistema economico cieco e insensibile ai bisogni dell’uomo; dall’altro i cittadini e le popolazioni più disagiate, costretti a lottare per un bene che spetta loro di diritto. Perché l’acqua è soprattutto un diritto universale e non un semplice bisogno al quale è stato ridotto. Ma, dagli ultimi decenni del secolo scorso, l’approvvigionamento delle acque potabili è affidata a partnership pubblico-private, gestite e manovrate da enormi multinazionali e istituti di credito internazionali, rigorosamente occidentali.
Il lungo cammino ebbe inizio nel 1989 quando Margaret Thatcher impose un’ imponente privatizzazione della rete idrica in Galles e Inghilterra. L’anno seguente, in circa 12 paesi europei, operavano già imprese idriche internazionali. Le stesse, tra il ’94 e il ’98, effettuarono 138 grosse operazioni legate all’acqua ed entrarono in società con istituti finanziari privati, acquistando i servizi pubblici e togliendo la distribuzione dell’acqua ai governi. Nel 2000 le società idriche private operavano già in 100 paesi e l’acqua privatizzata rappresentava il 10% di quella globale. Anche la Banca Mondiale e l’Onu decisero di accelerare questo processo, facendo passare il messaggio che tale metodo fosse il migliore per salvaguardare l’acqua e salvarla dallo spreco. Ma in realtà era solo un modo per trasformarla in uno dei business maggiori del secolo e fare quindi i loro interessi. Ovvero? Fornire esclusivamente gli utenti in grado di pagare la fornitura.
La privatizzazione, però, ha dei costi molto alti, già difficili da sostenere nel mondo industrializzato. Nonostante ciò, però, i “potenti” della terra, avidi di potere e denaro, non hanno risparmiato il Terzo Mondo e soprattutto negli ultimi anni tentano, con ogni mezzo, di imporre le proprie leggi privatistiche anche nei paesi dove l’acqua è quasi un miraggio. In Egitto, Siria e Palestina il costo del bene è aumentato del 35%, in Ghana addirittura raddoppiato dopo la privatizzazione: un secchio d’acqua corrisponde circa a un decimo del guadagno giornaliero e spesso la gente deve rinunciare addirittura al cibo pur di usufruirne. E così accade che, spesso negli stessi paesi, i benestanti sguazzano nelle loro piscine mentre i figli della strada annaspano in pozzanghere di fango adibite a bagni pubblici e abbeveratoi. Scene da film, verrebbe da dire. E forse non è errato visto che, oltre alle pellicole, difficilmente troveremmo immagini simili altrove.
E’ inconcepibile dunque, come nel ventunesimo secolo più della metà della popolazione possieda un computer e l’altra metà preghi affinché piova di più. E il paradosso è proprio qua: non occorre più acqua, perché ce n’è a sufficienza se solo venisse distribuita egualmente e gratuitamente. Ma solo i “prescelti” hanno il diritto di decidere dove, quando e per chi aprire i rubinetti.
Per non allontanarci troppo cronologicamente basta ricordare come una delle cause scatenanti dell’appena trascorsa “primavera araba” sia stata proprio l’acqua e il suo uso improprio. In Tunisia, Siria, ma soprattutto Egitto la gente era stremata per l’accresciuto prezzo del pane e quindi dei cereali. Questo perché le terre e l’acqua vengono sfruttate dai privati, e privatamente, per la produzione di biocombustibili utili ai “potenti” e non per i beni di prima necessità. Ma la lista delle storture è ancora lunga: la distruzione dei pozzi nel deserto del Kalahari e in Sudan; l’avvelenamento delle falde in Darfur; le deviazioni dei corsi d’acqua in Kenya e in innumerevoli confini tra nazioni. Tutto ciò ha, naturalmente, come conseguenza morti e inasprimenti di conflitti già esistenti, che spesso vengono soffocati dall’indifferenza e la disinformazione. I manovratori politici, infatti, sono bravi a trasformare le lotte per lo sviluppo e le risorse in conflitti delle comunità, attraverso meccanismi molto semplici: le regioni che sorgono lungo i fiumi, oggetto del contendere, sono spesso abitate da società pluralistiche, differenti per lingua, etnia e usanze. Basta semplicemente strumentalizzare una delle loro diversità per camuffare il vero motivo del conflitto e il gioco è fatto. Anzi, il silenzio è calato.
Ridevano in molti nel 1995 quando Ismail Serageldin, Vice Presidente della Banca mondiale, asserì che, a suo avviso, le guerre del ventesimo secolo erano state combattute per il petrolio e quelle del ventunesimo per l’acqua. Non so se farebbero lo stesso oggi, quei molti, a previsione avvenuta. La guerra per l’acqua è una realtà, e una guerra vera e proprio, al pari di altre. Latente, silenziosa, senza armi, senza truppe ma soprattutto senza informazione. E questa è l’altra grande tragedia che si trascina.
I potenti, le multinazionali, gli istituti privati e i governi dovrebbero salvarlo il mondo, prima ancora che cambiarlo. Perché, come asserisce Emilio Molinari, presidente della sezione italiana del “Contratto mondiale dell’acqua” << la proprietà dei mezzi di produzione ha lasciato il posto alla proprietà dei mezzi di riproduzione: aria, cibo e acqua. Solo un cambio di mentalità e cultura può salvarci>>.
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