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Peppi Plangger: la storia di chi è sopravvissuto al dramma della Val Venosta

di Giulia Rossi

 


Peppi Plangger

Capelli rossicci, camicia a quadretti, rigorosamente arrotolata fino al gomito anche se fuori ci sono 5 gradi sotto zero, e due occhi nostalgici, espressivi, desiderosi di raccontare la sua sofferenza e quella di tutti gli abitanti di Curon che, sessanta anni fa, hanno visto annegare la propria casa così come i propri affetti.

Peppi Plangger ha 78 anni, è nato nella vecchia Curon e ha vissuto in prima persona il dramma che si è consumato nel 1950 in alta Val Venosta ma, crescendo, ha avuto la forza d’animo di rimettere assieme i cocci della sua esistenza e ricominciare da capo.

Oggi, anche se con un italiano stiracchiato, racconta con piacere alle nuove generazioni la sua storia. Sì, perché la vecchia Curon non deve essere dimenticata, così come il sacrificio che tante persone hanno dovuto fare “in nome della nazione”.

Difficile immaginare il dolore che gli abitanti di questo paese avranno provato nel sentire il rumore dell’esplosione della propria casa con dentro i ricordi di una vita. Difficile comprendere come si possa avere il diritto di sfrattare interi villaggi per scopi puramente economici. Difficile capire come sia possibile ora, osservare dalla propria finestra quello stesso lago sotto cui è sommerso il proprio paese in mille pezzi.

Singnor Plangger, ci spiega che cos’è successo a Curon nel 1950 a lei e agli abitanti del paese?

“Dove ora vedete il lago, sessant’anni fa c’era il mio un paese. Nel 1950, solo a Curon più di 120 famiglie, sono rimaste senza casa, chiesa, prati, fattorie. Oltre 530 ettari di campi sono stati inghiottiti dall’acqua. Tutto questo perché la società idroelettrica Montecatini aveva concretizzato il progetto, iniziato tempo prima, che prevedeva la costruzione di un lago artificiale per la produzione di energia, proprio al posto del nostro paese. Così, ci è stato ordinato di abbandonare in fretta le case e i masi, ci hanno lasciato solo il tempo di raccogliere qualche ricordo da portare con noi. Mia mamma era malata e vecchia, non voleva andare via da casa sua, allora abbiamo aspettato fino all’ultimo ma poi ci siamo dovuti rassegnare. Oltre al danno, la beffa: ci avevano detto che ci avrebbero offerto almeno dei compensi per poterci ricostruire un’esistenza, invece la Montecatini non ci ha pagato adeguatamente. Per un metro quadrato di campo abbiamo ricevuto 114 lire. Una miseria. Siamo comunque riusciti ad edificare una nuova casa più in alto, sopra al vecchio paese. Il terreno ci è costato al metro quadrato 350 lire, ma dovevamo pagare subito, altrimenti il campo sarebbe andato via al miglior offerente”.

Che cosa ha rappresentato per gli abitanti di Curon abbandonare la propria casa e ricominciarne una nuova vita?

“Io avevo solo 17 anni, ero giovane, per me è stato brutto ma non come per i miei genitori che lì vivevano da sempre. Mia nonna poi, è quella che ha reagito peggio allo sfratto, aveva 80 anni e nessuna voglia di cambiare casa. Ricordo che piangeva, non voleva andarsene. In ogni caso abbiamo dovuto costruire velocemente una nuova abitazione perché l’acqua ormai era arrivata in cantina. Quando siamo andati ad abitare nella nuova casa i muri non si erano ancora asciugati, una volta diventati secchi, dalle porte e dalle finestre sono passate le mosche. Ogni giorno, in primavera, gli operai della Montecatini facevano esplodere le case con la dinamite. Una dopo l’altra. Hanno perfino fatto saltare la chiesa più grande della Val Venosta. Da quel momento niente è stato più come prima. Abbiamo perso di vista i vicini e i parenti perché tutti hanno preso strade diverse”.

Come mai è rimasto in piedi solo il campanile?

“Il campanile è stato costruito nel 1357 e ha un valore artistico inestimabile ma la Montecatini lo avrebbe abbattuto comunque, per fortuna le Belle Arti ne hanno capito l’importanza e lo hanno preservato. Oggi il campanile è proprietà dell’ Alto Adige ed è diventato il simbolo del nostro paese e delle nostre origini. L’anno scorso abbiamo ristrutturato il tetto, io ero là in cima con gli architetti e mia figlia. Durante i lavori abbiamo fatto una sensazionale scoperta: nella palla di bronzo su cui si innalza la croce, erano custoditi parecchi documenti, scritti in vecchia calligrafia e disegni geometrici che mostravano gli antichi progetti del campanile. Adesso abbiamo aggiunto a questi documenti quelli nuovi, scritti a computer, così, tra cento anni, quando i nostri nipoti dovranno rifare il tetto, guarderanno dentro la palla e avranno la stessa sorpresa che abbiamo avuto noi”.

C’è un ricordo di quei giorni che le è rimasto particolarmente impresso?

“Sì. Era settembre, mia nonna era scesa in cantina per prendere le patate ad un certo punto l’ho sentita urlare: le patate erano immerse in mezzo metro d’acqua. La Montecatini aveva già aperto l’acqua ancora prima di far esplodere le case. Aveva fretta perché era in ritardo con la produzione di energia da destinare alla Svizzera, secondo un accordo che avevano fatto e che scadeva alla fine del 1950. E allora metteva fretta anche a noi: ‘ Forza, forza, muovetevi ‘, ci dicevano. Ma quella casa era lì da tantissimi anni, come si poteva fare in fretta a lasciarla? Da un momento all’altro non si può chiedere una cosa del genere. Non sapevamo scegliere che cosa portare, se avessimo avuto più tempo ci saremmo organizzati meglio”.

Che effetto le fa ora osservare dalla finestra di casa sua il lago?

“Mah, dopo sessant’anni non si piange più, ma nel cuore la ferita rimane, è stata una brutta esperienza che ho rivissuto, crescendo, attraverso i racconti dei miei genitori, per loro è stato sicuramente un colpo ancor più grosso del mio”.

Circa l'autore

Giorgio Triani

Sociologo, giornalista, consulente d’impresa.

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