
Una scuola fatta di gomme
di Giovanna Pavesi
Nel febbraio 2009 iniziava il progetto che dopo pochi mesi avrebbe dato ai bambini di Khan Al Ahmar in Cisgiordania, una scuola. Banchi veri, sedie, computer, fotocopiatrici, finestre e disegni appesi alle pareti. Eccola, in mezzo ai colori caldi del deserto, alle baracche in lamiera, sulla strada di Gerusalemme, la “scuola di gomme”.
La zona C è occupata dai coloni israeliani. Lo Stato d’Israele impedisce alle comunità beduine la costruzione di qualsiasi manufatto in cemento.
Ecco che allora un gruppo di giovani architetti italiani (uniti sotto il nome di ARCò-Architettura e Cooperazione), mettono a disposizione la loro creatività e il loro lavoro per dare una scuola a più di 100 bambini beduini.
Sembra una favola: una scuola costruita con pneumatici in pochi mesi, il tempo delle “vacanze estive”.
ARCò e Vento di Terre (la ong che si è occupata del progetto), stringendo le loro mani, portano un po’ di straordinaria quotidianità nelle vite surreali di questi bambini, cresciuti in mezzo ai sassi e abituati al rumore assordante dei carri armati.
Le scuole sono costruite con materiali poveri, facilmente reperibili nel luogo in cui vengono edificate le strutture, e sfruttano l’energia rinnovabile. Le gomme che costituiscono le pareti non rilasciano nessuna sostanza nociva per i bambini, perché lavorate secondo criteri ben definiti. All’interno il clima è gradevole perché si percepiscono 10 gradi in meno rispetto all’esterno.
L’eco-sostenibilità in questo caso si lega ad un importante quanto elevato progetto di solidarietà e cooperazione internazionale.
Le scuole eco-sostenibili in Palestina in questi tre anni sono aumentate, e alcuni dei bambini che si sono seduti per la prima volta tra i banchi della scuola di gomme nel 2009, ora corrono per il cortile della scuola canticchiando filastrocche per imparare a contare e per imparare l’inglese.
Mi racconta tutto uno degli architetti di ARCò, Alessio Battistella.
Una scuola fatta di gomme. Proprio in questo periodo il vostro progetto a Khan Al Ahmar, in Cisgiordania, compie tre anni di vita. Nasceva nel febbraio 2009 l’idea di una costruzione alternativa al cemento che ha fatto il giro di tutta la carta stampata internazionale: una scuola elementare per i bambini della comunità beduina. Come mai una scuola di gomme? Come avete avuto questa idea?
“Nasce da una contingenza, nel senso che, la scuola non si poteva fare nel luogo in cui l’abbiamo fatta per quanto riguarda la normativa israeliana. Come sai è costruita in area C, per cui abbiamo dovuto usare una tecnica che non desse nell’occhio, che non facesse rendere conto che si stava costruendo una scuola; quindi usando dei materiali che potessero essere da costruzioni ma non convenzionali, in modo che non si capisse che lì c’era un cantiere. E soprattutto anche da condizioni economiche molto limitate. Si è partiti all’inizio con 15.000 euro. Poi sono arrivati degli altri soldi perché la scuola ha avuto, come dire, un riscontro mediatico abbastanza forte e quindi sono stati stanziati dei soldi anche della CEI, del Ministero che hanno fatto sì che si potesse mettere fotovoltaico. Però le ragioni fondamentali sono state cercare di usare materiale più economico possibile e che desse il meno possibile nell’occhio. Abbiamo cercato cosa si fosse usato nel tempo e che cosa potevamo trovare facilmente e lì abbiamo trovato questa soluzione del copertone riempito di terra, che da’ delle ottime prestazioni di comfort termico a quelle temperature, in quelle latitudini.”
Il lavoro è stato lungo? Quanti mesi è durato?
“E’ durato circa i tempi delle vacanze della scuola, in sostanza.”
Come siete riusciti a legare bioclimatica, bioarchitettura, ecosostenibilità e cooperazione internazionale in una polveriera “a cielo aperto” come quella zona della Palestina? E’ stato complicato?
“Per noi la sostenibilità in architettura è una condizione necessaria al fare architettura, per cui non è una cosa dalla quale possiamo prescindere. E’ il nostro modo di fare architettura; e nella fattispecie quando operiamo in aree d’emergenza come queste cerchiamo di usare tecniche a basso contenuto tecnologico, per cui cose che si possano trovare facilmente. Soprattutto nel metodo che stiamo mettendo a punto c’è anche la trasmissione di una conoscenza alla comunità locale. Noi poi creiamo ‘libretti di istruzione’ perché si riesca a fare la cosa in auto-costruzione, per cui in questo modo facciamo anche formazione. Insegnamo alle persone a usare queste tecniche che sono mediamente abbastanza semplici e quindi poi loro hanno un riscontro immediato nella differenza della qualità della vita che hanno, c’è anche questo valore aggiunto. Quindi costruiamo questi libretti molto immediati visivamente, in modo che capiscano che attrezzi devono usare, come li devono usare e come assemblare i pezzi. Poi per la complessità della situazione politica, il ruolo fondamentale ce l’ha l’ong Vento di Terra che si occupa di coordinare questo tipo di aspetti: è quella che ha le relazioni con le associazioni locali dei beduini e che quindi capisce e raccoglie le esigenze della comunità beduina. Noi arriviamo nella fase della progettazione architettonica e della progettazione partecipata dell’architettura.”
Avete mai pensato ad un progetto nella striscia di Gaza?
“Sì. Il 19 di questo mese inaugura l’ultima scuola che abbiamo fatto, co-progettata con Mario Cucinella. Abbiamo utilizzato un’altra tecnica, sempre a basso contenuto tecnologico. Qui è un lavoro completamente diverso perché è stato finanziato dal Ministero degli Esteri italiano per la maggior parte, quindi c’è un budget completamente diverso e quindi anche delle accortezze architettoniche assolutamente diverse, lo si vede subito che è una scuola che ha ‘più soldi’.”
Com’è stato scontrarsi con la dura e inflessibile legislazione israeliana che vieta la costruzione ai beduini di qualsiasi manufatto in cemento?
“Per noi in qualche modo è stato uno stimolo dal punto di vista architettonico, nel senso che per gli architetti i vincoli sono uno stimolo a cercare di risolvere un problema da un punto di vista creativo. Per cui il fatto di usare queste tecniche e questi materiali, come ti dicevo prima, nasce dal fatto che non si poteva fare altrimenti. Oltre al fatto che stiamo cercando di utilizzare tecniche sostenibili.
La seconda scuola che abbiamo fatto, per esempio, è stata fatta con la tecnica in ‘adobe’: mischiando paglia e fango messi dentro ad una sorta di cassaforma di legno, chiusa con il bambù. Abbiamo reinterpretato il pise’, l’adobe, che sono due tecniche che si usano da sempre in certi luoghi, luoghi caldi soprattutto, e l’abbiamo trasposto lì in una situazione in cui dovevamo addirittura mantenere esattamente la stessa volumetria. Non potevamo smantellare nulla nella seconda scuola, quindi abbiamo proprio lavorato sulla pelle dell’edificio. Dal nostro punto di vista è uno stimolo. Chiaramente diventa un grosso problema perché tutte le scuole hanno degli ordini di demolizione. Soprattutto la scuola di gomme è a rischio demolizione. Nella fattispecie, come ti dicevo, nella scuola di gomme c’è già un’ordinanza di demolizione e dipende soltanto dall’esercito; è stata revocata, è stata fermata, ma volendo l’esercito potrebbe andare lì e demolirla.”
Com’è stato il vostro rapporto con i coloni israeliani che occupano questi territori?
“All’inizio, per la costruzione delle prime due scuole, non ci conosceva nessuno, per cui facevamo le nostre cose e non abbiamo avuto degli scontri forti. Il grande rumore sui giornali forse poteva esporci a qualche pericolo, proprio perché la vicenda era andata su parecchi giornali. Un altro di noi era stato fermato dall’esercito in un posto di blocco e ha avuto dei problemi; però tutte cose abbastanza risolte, facilmente. Io, tutte le volte che sono andato, al di là dei continui posti di blocco, che però sono checkpoint normali in una situazione come quella, non ho avuto dei grossi problemi. Non abbiamo vissuto grossi problemi rivolti specificatamente contro di noi ad impedire che non si facesse quello che stavamo facendo. Queste cose, a livello di gestione con le situazioni locali, le hanno gestite Vento di Terra, l’ong. Per cui noi, quando arriviamo abbiamo un lavoro molto specifico da svolgere.”
Come reagiscono gli abitanti di quei luoghi, in particolare i bambini, nati e vissuti tra il frastuono delle bombe e abituati ai sassi di una guerriglia quotidiana di fronte ad una scuola tutta loro, creata in così poco tempo? Percepite un senso di gratitudine, seppur attraverso l’ottica di un bambino?
“Questo aspetto c’è sicuramente, anche perché poi in queste scuole si stanno già organizzando dei campi estivi, si usano in diverse ore del giorno anche per altre attività. Il fatto che ora ci sia questa struttura per loro è assolutamente una cosa che vedi che è vissuta, anche nelle ore fuori l’orario scolastico. Per esempio, adesso ci hanno chiesto gli adulti di rinforzare le persiane perché i bambini quando entrano rompono tutto. Riconosciamo questa cosa: è una gratitudine non espressa, non è facile da definire con le parole. Forme di gratitudine ci sono, sicuramente. Non ci sono situazioni plateali. Noi facendo, soprattutto nel piano delle scuole, anche i muratori (quando siamo lì), spiegando con questi libretti d’istruzione, istauriamo un rapporto veramente quotidiano. Mangiavamo tutti i giorni con loro, le stesse cose che mangiano loro, eravamo nel cantiere con loro. I bambini erano sempre intorno, anzi a volte bisognava anche allontanarli. Sono bambini piuttosto irruenti. Culturalmente la situazione stessa ti porta ad avere forme di aggressività, per cui anche la forma di gratitudine è manifestata in modo ‘aggressivo’ in qualche modo.”
Sul vostro sito ho letto di altri vostri progetti, tutti molto interessanti soprattutto per quello che riguarda l’idea che si crea dietro: imparare ad avere la cultura della sostenibilità e del ri-uso di materiali che altrimenti si consumerebbero forse in qualche discarica, creando un probabile danno all’ambiente. Avete mai pensato di portare qui le vostre scuole?
“Assolutamente sì. Stiamo cercando di fare di tutto perché ciò possa accadere, però noi lavoriamo a questi progetti di notte o nel fine settimana, durante il giorno facciamo altri tipi di lavori per poter campare, quindi non è una cosa molto semplice da fare in breve tempo. Però sì, vorremmo fare in modo di lavorare anche qui perché assolutamente anche in Italia c’è bisogno di questo tipo di approccio. In certe parti dell’Europa già si può fare. Qui è ancora difficile anche dal punto di vista normativo.”
La giornalista israeliana Amira Hass, su Haaretz (il quotidiano più antico di Israele) vi ha dedicato due lunghi articoli. Lei conosce molto bene la situazione di questi territori perché si è trasferita in Cisgiordania nel 1991 e molto spesso ha assunto posizioni molto critiche rispetto alle scelte operate dallo Stato d’Israele. Ha descritto alla perfezione che cosa rappresenta la vostra scuola per la Palestina, che simbolo è diventato. Voi avete percepito una sorta di “astio” da parte del cittadino israeliano medio, magari filo-governativo rispetto a questo?
“Noi come gruppo Ar-Cò non l’abbiamo vissuto direttamente questo astio. Sicuramente c’è da parte delle persone che hai descritto tu, tipo il cittadino filo-governativo. Abbiamo avuto però altre manifestazioni di solidarietà, sempre da parte degli israeliani. Per cui non la metterei tanto su questo aspetto. Sicuramente non siamo simpatici a certa gente e invece siamo simpatici ad altri.”
Prima questi bambini erano costretti a spostarsi a piedi sul ciglio di strade pericolose per chilometri, per raggiungere una scuola. Un proverbio arabo dice che “una montagna non ha bisogno di un’altra montagna, ma una persona ha sempre bisogno di un’altra persona”. Duemiladuecento pneumatici hanno dato un luogo dove stare a un centinaio di bambini.
Appesi alle pareti dei fogli con su scritto: “ Our book has the future that we will make with the hard work, education, thought and distinction.”
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