
Immagini dal sottosuolo della primavera araba
di Giovanna Pavesi
“Le immagini nascono per aiutare a pensare, per dare l’avvio a pensieri di altri, anche di quelli condannati a non pensare mai”. A pronunciare queste parole fu Tano d’Amico, celebre fotoreporter, che negli anni ’70 raccontò gli “anni di piombo” e il maggio italiano. La prima “primavera italiana” dopo la guerra.
A distanza di 40 anni, osserviamo incuriositi le immagini che arrivano dalla Primavera Araba, una vera e propria “primavera di popoli” iniziata nella calda estate del 2009 a Tehran e non ancora sbocciata completamente.
Una primavera che ha infiammato non soltanto i paesi arabi, ma che tra il 2009 e il 2012 ha messo in fuga imbarazzanti “marajà” da tempo sostenuti dalle logiche geopolitiche mondiali.
Ragazzi che hanno stretto le loro mani in un’immaginaria catena umana studiata sui social-network e sfociata nelle piazze iraniane nel 2009 e ora giunta a Homs, in Siria.
Mani, volti, urla. Tutto racchiuso in un fotogramma, perché le immagini sono portatrici sane di riflessione obbligata.
Alla fine dello scorso novembre, il fotoreporter francese Stephen Dock ha intrapreso uno dei compiti più difficili e affascinanti: raccontare l’intricata situazione siriana dal “sottosuolo”, attraverso una serie di immagini.
Il regime di Bashar Al-Assad è impenetrabile. Per mesi dalla Siria sono arrivati, clandestinamente, solo frammenti di fotogrammi video. Le immagini erano confuse, e in un anno di protesta, è stato quasi impossibile scorgere la rabbia, le lacrime, il sudore dei manifestanti che nelle strade chiedevano la resa della dittatura di Assad.
A novembre, Stephen Dock è partito dalla confinante Turchia: da Antakya ha raggiunto la Siria, attraversando in clandestinità il confine, aiutato da alcuni membri della resistenza contro il regime di Assad.
Per più di una settimana ha documentato, minuziosamente, le attività dell’Esercito siriano libero (Esl) e le manifestazioni di piazza.
Dock ha catturato ogni dettaglio inaspettato.
Al lettore/osservatore non presenta le strade piene di manifestanti “anonimi”, ma raccoglie la lacrima, il dettaglio, la rabbia, la mano, il volto, la tortura, le barbe invecchiate sotto la tirannia di una tra le più subdole e feroci dittature contemporanee.
Nello scatto, Dock, ferma la mano spaventata che tiene un’arma sotto la giacca e racconta gli occhi di un giovane violentati dalle torture subite dagli shabiha (miliziani fedeli al regime).
Fotografa le braccia di un ragazzino, che regge un cartello con una scritta in tedesco, per ottenere più visibilità all’estero: “Bashar ist schlecter als Hetler und Franko”.
In un metaforico abbraccio consola l’aria spaventata di un giovanissimo combattente che indossa una kefiah e che stringe tra le braccia un’arma di cui ha visibilmente paura.
Il fotoreportage di Dock dalla Siria è diverso e in esso convive una strana mescolanza. Dalla descrizione quasi sfacciata della strada in lotta, ai luoghi “segreti” del silenzio della resistenza.
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