
Itinerari. I fari e l’isola di Ouessant
di Giulia Rossi
Profumo di mare, schizzi salati sulla pelle, la voce dei gabbiani e quella luce negli occhi calda, intensa che solo l’ultima energia del sole che se ne va a dormire oltre l’orizzonte sa trasmetterti. E poi arriva il piacere più grande. Quello che riempie lo sguardo e fa battere il cuore: la forza dei colori del cielo al tramonto: arancione, rosso, rosa, viola. Fino a diventare una macchia omogenea che si spegne e lascia spazio alla notte. Una dopo l’altra si illuminano le stelle nel cielo, l’acqua diventa scura, le onde si infrangono sugli scogli, i confini delle cose svaniscono. Allora subentra la paura, la consapevolezza di essere soli davanti alla natura, alla sua forza dirompente. Corrono i pensieri e i ricordi ma non c’è tempo, bisogna concentrarsi sul lavoro.
Chissà, forse è questo che hanno provato, qualche volta, al calar della sera, i guardiani dei fari che come tante stelle polari, per secoli, hanno guidato i marinai intenti a solcare le acque agitate al largo dell’isola di Ouessant, in Bretagna.
Ribattezzata dai navigatori francesi che percorrevano questa rotta importantissima per il commercio, “Isola dello Spavento”, Ouessant, assieme a Capo Nord, detiene il primato delle coste più pericolose al mondo. Almeno 50 i relitti che giacciono ancora in fondo al mare, vittime innocenti delle correnti atlantiche, della fitta nebbia, delle maree improvvise e delle onde ciclopiche.
E’ per la necessità di prevenire incidenti simili che proprio sull’isola bretone sono sorti i primi fari moderni.
Incuriositi dal fascino e dalla storia che si porta dietro questo lembo di mare, decidiamo di andare ad esplorarlo. Dal porticciolo di Le Conquet, Ouessant dista circa un’ ora. Sessanta minuti di onde, coraggiosamente affrontate dal traghetto turistico, e di vento impetuoso che scuote la prua e fischia nelle orecchie. Chiudendo gli occhi e ascoltando il mare viene spontaneo pensare a chi oltre cento anni fa qui è naufragato.
Attracchiamo, felici di esser finalmente sulla terra ferma. La guida in un inglese francesizzato ci indica l’unico mezzo di trasporto con cui è lecito muoversi sull’isola: la bicicletta. Sì, perché oggi Ouessant è un’area protetta, parte del parco Regionale d’Armorique, creato nel 1969. L’isola è stata definita uno dei più importanti ecomusei del mare d’Europa perché conserva storia e natura di un anglo di Bretagna sfuggito alla modernità.
Tra salite e discese a bordo della mountain bike, incontriamo un mondo che non immaginavamo esistesse ancora: praterie incontaminate, aria pulita, fiori selvatici, coste che si tuffano nel mare irrequieto, pecore libere che camminano per il sentiero; qualcuna, vanitosa, si sdraia in mezzo alla strada per farsi fotografare. Non ci sono auto, non c’è inquinamento, non ci sono fabbriche. Ouessant è davvero l’isola che non c’è.
I fari sono agli estremi dell’isola, per arrivarci, attraversiamo l’antico borgo restaurato. Il centro di Ouessant è composto da qualche chiesa, alcuni ristoranti specializzati in crepes salate e sidro della casa, svariati negozi di souvenir. Per fare carriera certo non è il posto ideale: non c’è spazio per i manager, gli avvocati, gli uomini in giacca, cravatta e ventiquattrore, ma per chi ama il romanticismo, la tranquillità e la natura, Ouessant è in vetta alla classifiche dei posti più desiderabili. O almeno lo è per la manciata di abitanti dell’isola che vivono in piccole e raffinate casette con il tetto a punta, e per i pochi visitatori che conoscono questo paradiso nascosto nel mare. Qui, ci si può prendere il tempo per se stessi. Per leggere davanti all’orizzonte. Per pensare accarezzando l’erba. Per ammirare l’imponenza dei fari che dominano l’acqua, come quello della Jument, che osserviamo in lontananza sdraiati dalla costa, cercando di tornare indietro con la mente per ricordare quello che un secolo fa qui è accaduto.
Era dicembre 1911 quando un guardiano della Jument scrisse nel suo diario questa testimonianza (racchiusa tra le pagine di “Ile d’Ouessant, l’isola dei fari”, di Carlo Piccinelli):
«Latitudine 48° 25’ 24” N longitudine 5°8’4”W. Onde enormi frangono e si abbattono con violenza sulla torre del faro sul lato nord spezzandosi in due, creando impressionanti muri spumeggianti di acqua e schiuma. Da cinque giorni la tempesta atlantica sferza con violenza il faro bloccandoci dall’interno. Siamo una squadra di assistenza e manutenzione composta da Coatmeur, Gall, Masson ormai allo strenuo delle forze. Dalle finestre grondanti d’acqua vediamo in distanza la barca di salvataggio in difficoltà, sballottata dalla onde e dal vento a causa del mare in burrasca, il capitano non riesce ad accostare alla base del faro. Per l’equipaggio a bordo è impossibile lanciare verso di noi il cavo di salvataggio. Nonostante i ripetuti tentativi, non riusciamo ad agguantarlo e ad agganciarlo all’anello di sicurezza situato alla base del faro. Senza questa manovra non possiamo appendere il seggiolino di salvataggio e carrucolarci a bordo utilizzando il cavo come via di fuga. Le onde sono talmente alte e potenti che raggiungono la lanterna situata a 42 metri d’altezza scuotendo, con forti boati e tremoli, l’intera struttura di pietra e cemento. In cima al faro la vasca nella lanterna contenente il mercurio, usata per sostenere il gruppo ottico, si è spaccata e il prezioso e dannoso metallo liquido si è riversato all’interno colando lungo la scala a chiocciola sino a raggiungere e inquinare le scorte di acqua potabile contenute nella cisterna. Anche le riserve di carburante che alimenta il generatore e le casse di cibo stivate nei piani inferiori sono inquinate dal mercurio e inzuppate d’acqua salata e diversi contenitori di pesce secco sono stati spazzati via dalle ondate che violentemente entrano dalle finestre e dalle porte dei piani bassi ormai completamente rotte e sfondate. Durante la notte appena trascorsa si sono aperte alcune crepe alla base del faro minacciando la stabilità della struttura. Nella mattinata del sesto giorno, dopo cinque notti passate al freddo senza mangiare, dormire, la furia della tempesta finalmente si placa per qualche ora…».
Dopo sei giorni di agonia, il lieto fine: il battello di soccorso riuscì a recuperare gli abitanti del faro della Jument e a riportarli a casa, stremati ma salvi.
Prima che venissero completamente automatizzati i fari, non tanto tempo fa, centinaia di guardiani rischiavano la vita così, intenti nello scrutare navigli in difficoltà, resistendo al frastuono delle onde che sbattevano con violenza contro le pareti del faro, avvolgendo talvolta la torre fino a farla scomparire sotto la furia dell’acqua, dando l’allarme via radio e prestando loro stessi soccorso come potevano.
Nell’antichità il lavoro del guardiano del faro era svolto dagli schiavi che avevano il compito di alimentare con la legna i falò situato sulla sommità della struttura. Il testimone, nel Medioevo, è poi passato ai monaci che, volontariamente, prestavano soccorso alle navi che avevano smarrito la rotta, rischiando di infrangersi tra le rocce. Il guardiano dei fari divenne ufficialmente una professione nell’Ottocento, quando la struttura di queste torri fiabesche, si fece moderna. La linea di demarcazione è stata segnata dal fisico Augustin Fresnel che sostituì a un sistema di illuminazione vetusto, come la fiamma a braciere che ardeva in cima al faro, un nuovo metodo di illuminazione basato sulla lampada e sulla concentrazione della luce in fasci orizzontali, ottenuti attraverso un sistema di lenti rotante rispetto ad un asse verticale.
L’isola di Ouessant detiene alcuni dei primati in quanto a prestigio e antichità dei fari che sono nati a fianco delle sue coste. Nividic, tanto per citarne uno, è il primo faro automatico costruito in Europa. Per arrivare a vederlo da vicino, abbiamo dovuto appoggiare le bici a terra e farci strada, a carponi, tra un muro di scivolosi scogli arancione chiaro. Ma una volta che l’orizzonte ci si è dipinto davanti agli occhi, Nividic, assieme ad alcuni tralicci che portavano l’elettricità al faro, si è presentato a noi, regalandoci una calma solo apparente. Uno tra i più antichi d’Europa è invece Stiff. Bianco, tondeggiante, costituito da due torri unite, quasi abbracciate. Incontriamo un vecchio signore che ci offre di entrare a visitare il faro: nella pancia della torre oggi si vende miele prodotto dai contadini dell’isola. Le scale a chiocciola sembrano interminabili, dalle finestrelle piccole della torre vediamo il paesaggio sempre più piccolo, l’aria scarseggia. Ma arrivati in cima ci sentiamo i padroni del mondo. Davanti a noi, la vista di tutta l’isola che metro dopo metro si lancia nel mare.
Sul gradino maggiore del podio dei fari più potenti d’Europa, sull’isola di Oeussant, c’è Creac’h, vestito a strisce bianche e nere. A lui il compito di segnalare la rotta ai navigatori fino al Canale della Manica, grazie ad un doppio gruppo ottico disposto su due piani.
Anche l’imponente Kéréon, costruito su una roccia chiamata Men-Tensel “la roccia arcigna”,al largo della costa sud orientale dell’isola di Ouessant, ha la sua caratteristica distintiva: il lusso.
Scale spaziose, cucina elegante, confortevoli stanze per gli inquilini e un grande salone in legno con una scrivania in fondo alla sala, sul cui pavimento è disegnata una gigantesca rosa dei venti. Insomma, una sorta di hotel a 5 stelle in mezzo al mare che prese vita con questa sfarzosità, grazie ad una donazione di 585.000 franchi che la pronipote di un ufficiale di marina francese, Charles Marie La Dall de Kéréon, fece nel 1910, purché il faro portasse il nome del suo antenato,
L’ultimo guardiano di Kéréon se ne andò dalla sua postazione nel 2004. Oggi tutti i fari sono stati automatizzati con controlli a distanza attraverso computer.
Da allora l’amara poesia della vita nei fari è solo passato e vive nell’immaginazione di chi viene sull’isola di Ouessant a respirare una favola antica, guardando il mare blu e il tramonto all’orizzonte.
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