
Il porto di Pescara: never-ending story?
di Bruno Fusilli
Il presidente nazionale di Legambiente ci va giù duro con il Porto di Pescara quando sottolinea che non è pensabile che ci sia un porto chiuso per insabbiamento, soprattutto se è quello di un capoluogo di provincia. Non è un’opinione isolata questa, tutti, dalla marineria alle istituzioni, dai semplici cittadini agli ambientalisti, hanno focalizzato l’attenzione sul grande malato, il porto, chiuso ormai di fatto da mesi a causa del mancato dragaggio. Un forte monito era già stato lanciato dall’associazione di Legambiente ben dodici anni fa e riferito alla diga foranea, realizzata sulla riviera nord al largo del porto, costruzione all’origine dell’insabbiamento alla foce del fiume Pescara e di problemi ora aumentati in maniera esponenziale. Infatti, oltre all’inquinamento provocato dal fiume, non è da poco il rischio idrogeologico, vale a dire il pericolo di esondazione. In caso di eventi pluviali significativi, per il restringimento dell’alveo del fiume, dovuto ai fanghi, il Pescara, senza “casse di espansione”, non potrebbe far defluire le sue acque in modo controllato. Inoltre, sarebbe bloccato anche lo sbocco al mare perché l’insabbiamento, causato appunto dalla diga, costituisce un vero e proprio sbarramento. Fin qui, seppur grave, la situazione sembrerebbe riguardare soltanto la salvaguardia dell’ambiente e del territorio, in realtà la questione del Porto, soprattutto nell’ultimo anno, ha mostrato in pieno quanto siano evidenti le ripercussioni socio-economiche. Ma, per il momento, valutiamo più da vicino la gravità della situazione.
Osservare il fiume e il porto dall’interno, navigandoci sopra, fa ancora più impressione. Il mancato dragaggio, infatti, dopo aver creato difficoltà di navigabilità all’interno del canale e tra questo e la diga foranea, sta facendo divorare sempre maggiori porzioni del fiume, la cui profondità continua a diminuire. Se immaginassimo di percorrere il fiume con un gommone, ad una distanza di circa un chilometro dalla sua foce, già noteremmo il primo problema, prima ancora di salire a bordo. Basterebbe abbassare lo sguardo per vedere emergere dall’acqua, sulla sponda, decine di piante. Infatti, la flora marina è ormai oltre la superficie dell’acqua. Poco oltre, sul lato sinistro del Pescara, una folta vegetazione ha ormai invaso il letto del fiume per circa sei metri, tolti ovviamente alle barche. E non finisce qui. A circa metà della nostra navigazione, quasi all’altezza del Ponte ferroviario e del Ponte D’Annunzio, potremmo osservare un altro tratto di canne che sovrasta le barche ormeggiate a fatica, quasi “parcheggiate” sui sedimenti. Superati i tre ponti della città, si giunge al canale, nel punto in cui il fiume si allarga per circa duecento metri, dove a destra c’è la Capitaneria di Porto e dalla parte opposta la Madonnina. Su entrambi i lati melma e ancora melma, che ha praticamente ridotto a zero la profondità: su di essa un campionario maleodorante di rifiuti.
E pensare che fino a qualche anno fa, in questa porzione di porto, facevano manovre le navi che si rimettevano di prua per uscire dal canale. Adesso passare lì è pericoloso anche per barche con un pescaggio di poco superiore al metro. Molteplici sono, inoltre, le zone di secca: superati i fari del canale, di fronte alla diga foranea, sulla sinistra, una boa gialla segnala il pericolo di una profondità compresa tra sessanta e novanta centimetri, praticamente niente. Addirittura, a ridosso della diga, in una fascia di circa un metro, si potrebbe perfino camminare, vista la presenza di uno strato di sedimenti che ha raggiunto la superficie. In conclusione, gli unici a poter uscire in sicurezza dal porto sono coloro che hanno imbarcazioni con pescaggio inferiore al metro e con motore fuori bordo. Va da sé che, in una tale situazione, le istituzioni non hanno potuto far altro che bloccare l’attività dei pescherecci, i collegamenti con la Croazia, con la città di Spalato e l’isola di Hvar, l’ingresso delle navi cargo cariche di merci. Senza considerare che, con il passare del tempo, provvedimenti urgenti saranno necessari anche per il Porto turistico “Marina di Pescara”, localizzato alle spalle del molo sud del porto canale. Un’altra anima della città, infatti, è rappresentata dagli amanti della nautica, che per passione possiedono piccole barche sotto ai dieci metri di lunghezza.
Solo sul fiume ce ne sono attraccate circa 450 e il mancato dragaggio ha colpito duramente anche loro. Questo settore, infatti, non ha solo a che fare con il tempo libero ma rappresenta un valore economico di una certa rilevanza. Sei anni di allarmi ignorati, dunque. E’ così che il porto è diventato un porto perduto, sprofondato nell’emergenza senza fine del mancato dragaggio che è costato, finora, 74 posti di lavoro cancellati e 1,8 milioni di euro di affari bruciati. Accade che l’ultima petroliera, ricorda il direttore provinciale della Confesercenti, è approdata a maggio 2011, l’ultima nave commerciale nel luglio, il collegamento con la Croazia è stato cancellato mentre le operazioni di scarico dei prodotti petroliferi sono cessate a maggio. In due anni, persi dalle imprese 180 milioni di euro, cui si aggiungono gli otto milioni di costi fissi che si devono comunque sostenere. Fa venire il mal di testa solo a pensarci! A realizzare lo studio e tenere la contabilità dei danni è stato il Centro studi di Confindustria, che ha interpellato le aziende e tirato le somme per i due anni che vanno dal 2011 al 2012. Anche le petroliere hanno alzato bandiera bianca, rendendo inutile l’oleodotto costruito qualche anno fa. Un investimento ancora da ammortizzare, mentre ora benzina e gasolio devono arrivare a Pescara via camion, inquinando molto più di prima. La sparizione del servizio petroliere ha inoltre provocato una reazione a catena che ha interessato i servizi antincendio, i rimorchiatori, gli ormeggiatori, il pilota del porto, i dipendenti dell’agenzia marittima con danni complessivi quantificati intorno ai 600 mila euro. Senza considerare che fino al 2010, 24.000 erano i passeggeri che affollavano lo scalo pescarese per raggiungere la Croazia, che nel 2008 erano arrivati addirittura a 44 mila e che ora sono diventati zero a causa del mancato dragaggio. I proventi vanno altrove e le perdite stimate da Confindustria ammontano a oltre sei milioni di euro: per la prima volta, dopo 46 anni, l’Abruzzo nel 2012 è rimasto senza un collegamento con le coste slave. E, alla fine, hanno spento i motori i 60 pescherecci della marineria di Pescara.
Il nuovo progetto del porto di Pescara
Dall’inizio dell’estate, a conti fatti, le barche torneranno in mare il 5 ottobre prossimo, con l’incognita del dragaggio. Secondo le direttive della Regione, infatti, i lavori più urgenti non potranno essere eseguiti tra luglio ed agosto con i bagnanti in spiaggia, si perché la città può contare anche su una grande e lunga spiaggia dorata con un esercito di stabilimenti, ristoranti ed una buona capacità ricettiva, potenziata nel corso degli anni. La Camera di Commercio, con una presa di posizione del suo Presidente, ha chiesto che i lavori partano dal 15 settembre: una data certa è però impossibile, controbattono esponenti delle istituzioni, sempre impegnati in un ruolo decisamente attivo nel “pasticciaccio” del porto “perduto”. Già, perché le vicende del porto di Pescara assumono le caratteristiche di una vera e propria storia infinita, alimentata a dismisura dall’intervento e non-intervento di politici, di rappresentanti degli enti locali e nazionali, Presidenti di Associazioni e Leghe, che di fatto hanno aggrovigliato una matassa di per sé difficile da dipanare. L’unica certezza è che l’ARTA, l’Agenzia Regionale per la Tutela dell’Ambiente, ha avviato l’ennesimo iter per eseguire nuove analisi sui sedimenti del porto, dal momento che i lavori di dragaggio, il cui avvio è comunque legato alla qualità dei fanghi, sono stati bloccati dai carabinieri del N.O.E. e dalla Guardia di Finanza su disposizione del GIP del Tribunale dell’Aquila, la mattina stessa in cui erano iniziati nel dicembre 2011, con il sequestro della draga arrivata dal Veneto, dopo specifico appalto. Il primo nodo del contendere, infatti, aveva riguardato i risultati delle analisi stesse, che avrebbero dovuto dare il via libera ai lavori in caso di assenza di tossicità. Il punto è che quelle ultime, effettuate dai carabinieri del N.O.E., avevano prodotto risultati differenti rispetto alle precedenti dell’A.R.T.A e del corrispondente Ente nazionale. Per l’Agenzia regionale, secondo quanto riferisce il Commissario straordinario per il dragaggio del Porto, nominato dal Governo per venire a capo della situazione, il materiale poteva essere versato a mare, mentre per i militari dell’Arma i fanghi contengono pesticidi.
Da qui innumerevoli rimpalli di competenze, polemiche politiche, riunioni “fiume” fino all’intervento della magistratura. Non sono mancati i colpi di scena, quali le dimissioni irrevocabili dello stesso Commissario straordinario, il quale ha accusato il Governo di non aver affrontato la questione, sottolineando di aver assistito, anzi, ad un rimpallo di responsabilità tra ministeri, tra Regione e Stato centrale, senza ottenere né risposte né mezzi per agire, comportamenti inammissibili dal momento che si tratta di un porto di rilevanza nazionale. C’è poi chi invoca l’intervento della protezione civile, chi sostiene idee ben più radicali quali l’abbattimento della diga foranea, chi, addirittura, propone progetti per un totale rifacimento dell’area portuale, con deviazione dell’alveo fluviale e della sua foce. Tuttavia, anche la “semplice” proposta regionale di costruire una ulteriore vasca di contenimento dei sedimenti, accanto a quella già esistente piena dei fanghi raccolti dai dragaggi di circa dieci anni fa, è causa di infinite polemiche.
Insomma, il punto è che nessuno è d’accordo con nessuno. Eppure l’emergenza e il disagio socio-economico sono decisamente palpabili: che la storia del Porto di Pescara verrà ricordata come un dolente caso di insipienza umana? Ai posteri l’ardua sentenza.
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