
Lavorare stanca: cronache di lavoratori senza diritti

di Giovanna Pavesi
Il Bangladesh è una finestra che si affaccia sul Golfo del Bengala. In ogni luogo di confine, si sente il profumo e l’influenza dell’India, con l’eccezione di un piccolo frammento di Paese che sfiora la Birmania di Aung San Suu Kyi.
E’ uno dei paesi più popolosi dell’Asia, e oltre a contare una densità quasi unica al mondo, deve conteggiare i dati che raccontano la povertà e i disastri naturali.
Carestie, miseria, catastrofi naturali, compongono il mosaico della realtà di questo Paese.
Le immagini che invece ora, associamo al Bangladesh, sono quelle di una fabbrica distrutta; quando si osservano le foto, l’idea è quella di un castello di carte. Spazzato via. Messo letteralmente in ginocchio.
Alla fine di Aprile, a Dacca, crolla un edificio che ospita le fragili vite di decine di operai. E’ una fabbrica tessile che cuce stoffe di tutto il mondo, anche delle marche più prestigiose ed importanti. E’ una fabbrica di vestiti. Un luogo dove si da’ forma alla moda, in un Paese dove la moda non sfiora nemmeno le vite degli operai.
E’ accaduto mentre qui la primavera con estrema timidezza, cercava di sbocciare.
Dal 24 aprile, giorno del disastro, le vittime continuano a salire: il 9 maggio, le autorità locali contano 912 corpi senza vita sotto quel palazzo. Quel crollo si è portato via di tutto. Storie, racconti, energia, e insieme a questo, ha strappato via la sicurezza e i diritti sul lavoro.
Le grandi firme, che a poco prezzo si rivolgono ai paesi più poveri, ora dovranno forse pagare il loro debito di vite umane.
Dopo questo incidente, il governo locale ha chiuso 18 fabbriche e ha messo in atto un piano per garantire un salario minimo ai lavoratori di queste fabbriche; persone che passano la maggior parte della propria giornata tra le pareti di un luogo che non li tutela e che li sfrutta.
Nei giorni successivi, un altro incendio. Ci troviamo sempre a Dacca e altre otto persone sono morte.
Palazzi di decine di piani, che incendiandosi non solo emettono gas tossici per l’ambiente, ma che diventano simbolo di una globalizzazione malata, spregiudicata e senza freni.
Proprio mentre scrivo, in Cambogia muoiono tre operai per il crollo di un tetto in una fabbrica di scarpe.
Il copione sembra rispondere sempre alle medesime dinamiche: un cedimento di alcune travi d’acciaio che sostenevano un’area nel tratto comunicante tra due edifici. Sotto accusa è l’eccessivo peso caricato su quel piano sopraelevato in cemento, stipato di scarpe e macchinari. La fabbrica, gestita da circa un anno da una società taiwanese nella provincia di Kampong Seu, produce calzature per la Asics; lo scorso marzo, gli operai della Wing Star Shoes avevano scioperato per chiedere un aumento di salario e migliori condizioni di lavoro.
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