
Mi chiamo Alexander. Sono eritreo e la mia odissea inizia su un barcone.
di Giovanna Pavesi
Sono nato a Ghinda nel luglio del 1986. Dicono che il giorno preciso sia il 16, ma francamente non sono mai stato abituato a ricordare questa data come una giornata diversa dalle altre.
Ghinda è la città del limone. Quando chiudo gli occhi e penso alle colline attorno alla mia città, vedo il profilo delle montagne dolci, non troppo alte, bianchissime e con un po’ di verde.
E’ bella Ghinda, e ha un bellissimo nome.
L’odore della mia città non lo puoi dimenticare: l’aria del Mar Rosso, il profumo dell’Africa, le spezie, il sapore delle abitudini. Ma Ghinda, per me, non rappresenta solo bellezza. Si trova tra Asmara e Massaua, in Eritrea.
La bella Eritrea. Colorata. Multiculturale. Multilingue.
Il nome deriva dal greco antico erythros, che significa “rosso”.
Avevo cinque anni quando il mio Paese si è trovato nel bel mezzo di una guerra, che ha insanguinato non solo le nostre strade, ma anche le nostre menti. La chiamavano lotta per l’indipendenza; un’indipendenza, quella dall’Etiopia, che era costata la vita a migliaia di persone.
Ero un ragazzino e avevo visto già una lotta per l’indipendenza e un guerra di confine, sempre con l’Etiopia, che ci aveva fatto comprendere cosa significasse vedere morire 19.000 soldati. Tra questi, uno dei miei fratelli. Il più grande.
Nella mia Eritrea, attualmente, l’unico partito politico legalmente presente è il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia. Non è ammessa la formazione di altri gruppi politici benché la costituzione approvata nel 1997, preveda un sistema multipartitico. La nostra costituzione non è mai stata applicata però. Le elezioni previste per il dicembre 2001 sono state rinviate a una data che non è mai stata stabilita.
Di fatto, il governo, giustificando il suo comportamento con la situazione critica del paese, mantiene sospesi, e non applicati, i diritti civili dei cittadini, impedendo l’esercizio di quanto sancito dalla Costituzione.
Qui radio e giornali sono controllati e quasi soffocati, da quello che di fatto io riconosco come un regime. Per questo motivo ho deciso di andarmene. Me ne vado e mi si spezza il cuore. Lascio il mio mondo, ciò che mi somiglia. Lascio Ghinda, i limoni, l’Africa. Lascio quei lineamenti di mondo che mi ricordano chi sono, da dove vengo.
Raccolgo tutto quello che ho e con più di 2000 dollari, lascio la mia vita in mano ai trafficanti di vite umane. Mi è stato raccontato di tutto: delle torture in Libia, della sete e della fatica che nel deserto ti taglia la pelle come una lama affilatissima, delle difficili traversate in mare. Io però non ho un’altra soluzione, quindi decido, in una giornata come tante di lasciare la bella Ghinda. Non penso a niente. Me ne vado.
Questa è l’ipotetica storia di Alexander, giovane eritreo che a 27 anni, lascia la sua Africa per imbarcarsi su un barcone che non lo porterà in Europa. Alexander finirà per essere uno dei dimenticati nel mare. Finirà per essere l’oggetto di una spregevole strumentalizzazione che ha per tema l’immigrazione clandestina. Sarà la notizia discussa al bar, divisa tra ignoranza, razzismo e qualunquismo.
E proprio mentre scrivo, naufraga un altro barcone proveniente dalle coste africane. E proprio in queste ore pende sul nostro Paese un’accusa molto pesante. Un dossier degli ispettori Onu accusa il nostro Paese di avere contribuito alla macchina bellica del dittatore Isaias Afewerki. Qui, vengono chiamate in causa aziende italiane per forniture di elicotteri e veicoli utilizzati dalle forze armate del regime, sottoposto all’embargo internazionale. Le aziende italiane si macchiano ancora una volta di una colpa imbarazzante: piegare la coscienza a un’economia scellerata, che inginocchiandosi agli interessi, calpesta i diritti umani.
Secondo gli ispettori, il regime eritreo riuscirebbe a violare l’embargo grazie all’importazione di sistemi dual-use, che possono avere un impiego civile o un uso militare; uno dei ruoli chiave di queste operazioni, è affidato ad un italiano, di Cesena, che secondo un’inchiesta de L’espresso ha un nome e un cognome e che opera tra Cesena, Dubai e l’Eritrea. Questi avrebbe avuto cariche in numerose società italiane, alcune delle quali registrate come fornitori di macchine agricole. Gli ispettori scrivono che proprio l’agricoltura viene usata come copertura per importare materiali destinati agli armamenti. Ma sono numerosi i nomi che compaiono tra le pagine di questo documento; e sono numerose le regioni italiane che dovrebbero rispondere di queste colpe: da alcune aziende romagnole, ad un’azienda umbra che commercia in edilizia, grandi opere e macchine per cantieri.
Altre accuse all’Italia riguardano l’assenza di misure contro i taglieggiamenti inflitti dai consolati eritrei agli emigrati. Le Nazioni Unite hanno già segnalato questa “misura estorsiva”, che serve a finanziare l’esercito e il partito unico eritreo. L’Italia aveva promesso di prendere provvedimenti ma non ha fatto nulla. Gli ispettori scrivono che i cittadini eritrei residenti nel nostro Paese vengono obbligati a pagare una tassa illecita, con la minaccia di non rinnovare il passaporto.
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