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Un mondo al limite del collasso. La soluzione, mangiare meno carne

Un mondo al limite del collasso. La soluzione, mangiare meno carne

La doppia Piramide alimentare e ambientale

di Valentina Paulmichl

«Salvare la civiltà non è uno sport che prevede spettatori». Con queste parole, l’ambientalista statunitense Lester Brown lancia un appello alla popolazione mondiale. Il monito: mangiare meno carne per salvaguardare un mondo al limite del collasso.

Dopo la Seconda guerra mondiale, nei paesi industrializzati hanno cominciato a riconoscersi un diffuso benessere e un progressivo miglioramento delle condizioni di vita che si sono rispecchiati in un aumento del consumo di prodotti di origine animale. Oggi, con i redditi in rapida crescita nelle economie emergenti, ci sono quasi tre miliardi di persone che stanno salendo nella catena alimentare imponendosi come nuovi mangiatori di carne. È questo uno dei più grandi paradossi che caratterizzano un’epoca segnata dagli eccessi e dalla contraddizione di affermare che più di un miliardo di persone soffre la fame, schiacciato dal peso di un altro miliardo di persone obese.

Il consumo mondiale di carne è salito da poco meno di 50 milioni di tonnellate nel 1950 a 280 milioni nel 2010, con un incremento di cinque volte, mentre il consumo pro capite è più che raddoppiato passando da 17 a 40 chilogrammi l’anno. Grazie all’evoluzione delle tecnologie e dei sistemi di refrigerazione, negli ultimi decenni la quantità del pescato è rapidamente cresciuta e la maggior parte delle aree di pesca risulta sovrasfruttata e sulla via del collasso. Allo stesso modo i pascoli, che misurano due volte le superfici destinate alla coltivazione, sono tutti al limite della loro sostenibilità. Si tratta di un impatto non puramente ambientale ma anche e soprattutto sociale, che prepara le basi per spiegare meglio il problema dilagante della fame nel mondo.

È una sfida «food versus feed» (cibo contro mangime) in cui sembrano avere la peggio gli affamati del mondo. Più passa il tempo, maggiore è la percentuale di terreni fertili che anziché essere coltivati per produrre cibo destinato a raggiungere le nostre tavole, sono sovrasfruttati per produrre mangimi per alimentare gli animali.

L’americano medio consuma circa 635 chili di cereali l’anno, i quattro quinti dei quali
indirettamente sotto forma di carne, latte e uova. Oggi, per produrre 1 chilo di carne servono mediamente oltre 6 chili di cereali. L’economista Frances Moore Lappè ha calcolato che, negli Stati Uniti, in un anno sono stati prodotti 145 milioni di tonnellate di cereali e soia dai quali sono stati ricavati 21 milioni di tonnellate di proteine animali. Non è difficile tirare le somme: i 124 milioni di tonnellate di cibo sprecato nei soli Stati Uniti, avrebbero assicurato per un giorno un pasto completo a tutta la popolazione della Terra. Gli studiosi sembrano concordi nell’affermare che se il modello di consumo occidentale si imponesse in ogni angolo della terra, il nostro pianeta non sarebbe più in grado di reggere la domanda di cibo, per sostenere la quale servirebbero due volte e mezzo le terre emerse esistenti oggi. A mano a mano che la popolazione consuma più carne e derivati animali, di pari passo cresce il consumo indiretto di cereali. A livello mondiale, circa il 35% dei 2,3 miliardi di tonnellate annue del raccolto di cereali viene destinato a essere usato come mangime. Per la soia, a subire questa sorte è tutto il raccolto.

In epoca moderna, mangiare carne rappresenta più che mai uno status symbol, un indice di benessere e di ricchezza sociale. Eppure, le cose sembrano essere diverse: le persone con l’aspettativa di vita più lunga non sono quelle che si trovano nella parte più bassa o più alta della catena alimentare, ma coloro che occupano una posizione intermedia. Gli italiani, che occupano una posizione più bassa rispetto agli americani, hanno un’aspettativa di vita di 81 anni contro i 79 degli statunitensi. È questo uno dei vantaggi di quella che viene comunemente descritta come la dieta mediterranea, che prevede consumo moderato di carne di manzo e di pollo.

Oggi è necessario distinguere gli atteggiamenti nei confronti della carne da parte dei paesi industrializzati e quelli del Sud del mondo, in cui le proteine animali occupano un posto marginale nell’alimentazione. Quando una dieta è fortemente dipendente da un solo tipo di cereale, infatti, la carne diventa un integratore fondamentale, fornendo una fonte relativamente ricca di ferro. Nei paesi industrializzati, invece, dove c’è abbondanza di cibo di ogni genere e a buon mercato, la preoccupazione si sposta sugli effetti potenzialmente pericolosi di un elevato apporto di cibi grassi di origine animale, che sembrano essere una delle cause di malattie cardiache, coronariche e di altre “malattie del benessere”. Inoltre, negli ultimi anni abbiamo avuto più volte a che fare con i problemi derivati dalla presenza nella carne di pesticidi, residui ormonali e fattori di crescita utilizzati per aumentare le rese cerealicole che, attraverso il consumo di proteine animali, si sono trasformati in vere e proprie malattie (mucca pazza, influenza aviaria).

Non solo, la comunità scientifica allerta sempre di più l’opinione pubblica sul fatto che l’allevamento, in particolare, è responsabile di circa un quinto delle emissioni totali di gas-serra, contribuendo quindi a determinare i cambiamenti climatici e ciò che ne consegue. Secondo la rivista di divulgazione scientifica New Scientist, un chilo di manzo è responsabile di maggior emissioni di gas serra di quante ne produca guidare per tre ore lasciando contemporaneamente tutte le luci accese in casa.

A preoccuparsi per il futuro dell’umanità, anche Rajendra Pachauri, Premio Nobel per la pace nel 2007 e due volte direttore dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, che ha dichiarato che se le persone volessero davvero contribuire con un efficace sacrificio personale a combattere i cambiamenti climatici, dovrebbero trascorrere almeno un giorno alla settimana senza mangiare carne.

 

 

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