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Arcore da bere. Trent’anni di pubblicità italiana dal regansimo e thatcherismo a Berlusconi

Arcore da bere. Trent’anni di pubblicità italiana dal regansimo e thatcherismo a Berlusconi

di  Pasquale Barbella

 

 

  “Un mare di spot, un’esplosione di creatività.Visioni con quiz a premio” . E’ il titolo di una sessione di Scritture d’Acqua 2014. Un appuntamento con l’advertising internazionale e nazionale di qualità che ogni anno proponiamo in collaborazione con il Corso di laurea in giornalismo dell’Università di Parma. E con il contributo di Perfetti Van Malle, che da anni  produce numerosi spot e campagne che si segnalano, appunto, per creatività e siderale distanza  dalle drammatiche storie pubblicitarie che  da sempre per  tramite televisivo ci precipitano nelle caffettiere di Lavazza, nei biscottoni di Banderas, nei lavandini di ” pulito sì, fatica no!”

Per attinenza di genere e di metafore vi proponiamo un splendido  articolo  di Pasquale Barbella, pubblicitario dai luminosi trascorsi e ora tenutario di un blog, Dixit Cafè, che si segnala per intelligenza, acume critico e qualità della scrittura. Un blog al quale vi consigliamo caldamente, d’ora in poi, di buttarci un occhio.

 

Questo articolo è uscito per la prima volta sul trimestrale BILL n. 9, gennaio 2014  

 http://interpab.blogspot.it/search?q=arcore+da+bere

La pubblicità italiana degli ultimi trent’anni parte dal reaganismo e dal thatcherismo per approdare alla politica e al governo. Berlusconi stravince su Ramazzotti, Ferrero, Barilla, Lavazza, Unilever e Procter & Gamble.
“Il governo non è la soluzione del nostro problema, il governo è il problema”. Non è una battuta di Beppe Grillo ma del 40° presidente degli Stati Uniti, l’ex attore hollywoodiano Ronald Reagan, convinto sostenitore del primato del business sulla politica. Gran tagliatore di tasse e incentivatore del libero mercato, è unanimemente considerato – insieme a Margaret Thatcher – l’esponente ufficiale di una rinnovata visione del think big: quella che caratterizzò in modo profondo gli anni ottanta e i successivi, compresi i nostri. Volendo semplificare, è forse da lui (e dalla signora Thatcher) che bisogna partire per spiegare l’impatto e la persistenza di certi miti della nuova destra – liberismo sfrenato, concezione aziendale del servizio pubblico, radicalizzazione del marketing, spasmodica corsa al successo, individualismo, edonismo – emersi prima con la corrosione e poi con il crollo dell’impero sovietico e la fine della guerra fredda.
 
Margaret Thatcher e Ronald Reagan alla Casa Bianca, luglio 1987. Foto: Howard L. Sach, The Associated Press.
 
La storia è certamente più complessa di come la dipingono: più che essere determinata dai suoi protagonisti, li fabbrica al momento giusto. Condivido lo scetticismo di Tolstòj quando, in Guerra e pace, contestava le convenzioni della storiografia osservando che «vi sono leggi che dirigono gli avvenimenti, in parte sconosciute, in parte afferrabili da noi. La scoperta di queste leggi è possibile soltanto quando noi rinunziamo del tutto a ricercare le cause nella volontà di un uomo, appunto come scoprire le leggi del moto dei pianeti divenne possibile soltanto quando gli uomini rinunziarono all’idea dell’immobilità della terra.»
 
Lev Tolstoj, ritratto da Il’ja Efimovič Repin nel 1887.
Il Sessantotto si è guadagnato la S maiuscola per aver smascherato e combattuto ipocrisie, privilegi e secolari ingiustizie sociali. Si tende invece a sottovalutare la restaurazione iniziata negli anni ottanta (Ottanta?) per un motivo molto semplice: il nuovo materialismo si presentava con uno scintillìo inedito, attraente, ludico, e non tutte le sue manifestazioni sembravano – almeno all’inizio ­– riconducibili a intenzioni diaboliche. Prendiamo, in Italia, la liberalizzazione e la proliferazione delle emittenti radiofoniche e televisive, per esempio. Il principio era bello; non così, o non sempre, le conseguenze. Anche l’enfasi sulla meritocrazia, propria di quegli anni, suonava bene – prima di essere smentita dai fatti.
Riepilogando: trent’anni fa l’Occidente si sposta a destra; i sindacati perdono peso; i poveri si preparano a diventare più poveri; la finanza si dà alla pazza gioia; la disco dance folleggia dappertutto; il cinema si dà agli effetti speciali; la televisione si impone a tutte le ore; la moda diventa un diktat; il profitto pure. Sboccia un nuovo star system, quello degli imprenditori e dei manager d’azienda. Nelle edicole italiane arrivano testate dal nome inequivocabile: CapitalClass,Gente Money. La pubblicità non solo si adegua, ma sforna nuove ed entusiastiche teorie: Jacques Séguéla allarga il diritto di divismo anche alle marche commerciali (che da noi assumono, per eufonia e fighettosità, il titolo angloamericano di “brand”).
La profezia di Andy Warhol – «In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes» – si avvera su tutti i fronti: quello umano, grazie agli show televisivi che si vanno popolando di figure prese dalla strada (costano poco!) e, più tardi, all’attivismo collettivo nei social network; e quello degli oggetti, che la pop art aveva già promosso a icone culturali del nostro tempo. Non mancano, tuttavia, intellettuali che sorvegliano il nuovo corso con sguardo allarmato. Potentissima la metafora allestita da Bret Easton Ellis nel 1991 nel suo romanzo American Psycho: ritratto spietato dei giovani  yuppie di Wall Street e dintorni, pieni di soldi e totalmente privi di scrupoli.

Berlusconi come status symbol

Lo psicopatico protagonista di American Psycho combina tali e tante nefandezze che al suo confronto un altro famoso criminale letterario e cinematografico, l’Alex di Arancia meccanica, sembra un boy scout. Eppure né in America né nel Regno Unito si sviluppano, a livello istituzionale, anomalie paragonabili a quella che ha imballato il nostro paese per decenni. Non che lì, beninteso, non si commettano orrori e soprusi ragguardevoli, spesso dalle conseguenze planetarie (le guerre dei Bush e l’avventurismo finanziario dei Lehman Brothers, tanto per servire le prime pietanze che mi vengono in mente): ma la vigilanza rimane più alta che da noi, e le istituzioni mantengono una certa saldezza.
 
Bunga-bunga ante litteram. Nuovo n. 7, 1984-1985. Il ritratto di Berlusconi-Casanova è di Antonio Perosa; l’art direction di Francesco Rizzi.
In Italia Berlusconi è stato il principale artefice (secondo la visione tolstojana il principale derivato) di una survoltata concezione del vivere, del sentire, del trasgredire. Film come il documentario Videocracy di Erik Gandini e Reality di Matteo Garrone raccontano con poetica esattezza l’interdipendenza fra trash televisivo, propaganda, marketing, politica e criminalità che ha generato lo smantellamento etico del paese e incurabili nevrosi di massa. Ma, essendo partiti da lontano, dobbiamo chiederci come mai fenomeni mediatici di estensione globale (spesso generati all’estero, come Il grande fratello e altri format tv di pari cinismo) abbiano prodotto in Italia guasti più significativi che altrove. Da morire di Gus Van Sant e The Truman Show di Peter Weir denunciavano la stessa sindrome da spazzatura di cui ci lamentiamo noi, ma di Berlusconi ce n’è stato uno solo, ed è toccato soltanto a noi.
Perché?
A questa domanda le risposte più frequenti sono «perché ci ha saputo fare con la comunicazione» e «perché ha approfittato di una legittimità politica che doveva essergli negata a causa del conflitto di interessi». Se la prima risposta è giusta, la seconda lo è ancora di più. Quando, negli anni cinquanta del secolo scorso, i golpe in Sudamerica si susseguivano a ritmo di merengue, il primo atto dei dittatori era sempre lo stesso: occupare i media. Berlusconi li possedeva già, i media, e milioni di italiani lo hanno votato ugualmente, senza preoccuparsi dell’uso che ne avrebbe fatto.
 
Jim Carrey in The Truman Show di Peter Weir (1998), storia di un uomo qualunque intrappolato a sua insaputa in un reality show senza principio né fine.
Il paradosso sta nel fatto che anche la maggior parte dei suoi detrattori si era nel frattempo impregnata di nuove essenze. Piaceva a molti l’idea di sentirsi – warholianamente – prossimi al firmamento. Berlusconi incarnava l’ideale del Grande Imprenditore e del Supermanager. Capace di rifondare i mass media, la morale e il paese con uno schiocco di dita.
Ma questo è il senno di poi. Drive In era, sì, volgare ma all’apparenza innocuo, come le goliardate, le farse e l’avanspettacolo di antica memoria. Certi veleni agiscono lentamente, e il mal di pancia arriva troppo tardi.
Con le cravatte di Marinella e il sorriso, i capelli trapiantati uno per uno e la voce da popstar, Berlusconi ha interpretato alla perfezione lo slogan più citato dell’ultimo trentennio, «Milano da bere». Marco Mignani lo aveva creato per l’amaro Ramazzotti, nel tentativo di rivitalizzare e attualizzare un prodotto che andava perdendo un colpo dopo l’altro. Con quel motto aveva ancorato la marca ai valori del “sano spirito imprenditoriale ambrosiano”, rilanciandola in un ambito di costume decisamente contemporaneo. Era una campagna fondata sulla nuova parola d’ordine, lifestyle. Un messaggioaspirazionale, secondo la neolingua che si stava propagando a macchia d’olio nelle sale riunioni del marketing e della pubblicità.
 
Nicole Kidman nel ruolo di una donna disposta a tutto, anche ad assoldare dei killer per disfarsi del marito che la ostacola, pur di sfondare in televisione. Il film è Da morire (“To Die for”, 1995) di Gus Van Sant. Foto di scena di Kerry Hayes, Columbia Pictures.
Non che lo stile di vita, come concetto pubblicitario, fosse una gran novità. Che altro era il bel mondo disegnato da Dudovich, al tempo dei manifesti per Borsalino, per Martini, per i Magazzini Mele? Prodotti presentati come status symbol sono stati l’ossatura della pubblicità, in ogni tempo e paese.
Ma il lifestyle degli anni ottanta, novanta e duemila è qualcosa di più. Non solo simbolo, non solo sogno, ma coazione al successo. Un successo alla portata di tutti, che si può comprare (o illudersi di comprare) anche senza particolari capacità, talenti, competenze.

Stili di vita

Negli anni ottanta, gli istituti di ricerca applicata al marketing e alla pubblicità modellano e sviluppano classificazioni e indagini sulla popolazione più sofisticate che in passato. Alle rilevazioni di mercato e alle ricerche motivazionali si affiancano studi demografici più affilati, come le ricerche psicografiche. L’innovazione non è da poco: i cittadini, prima censiti per dati anagrafici, reddito, propensione e motivazione all’acquisto, sono ora assortiti in cluster psicologici e culturali che tengono conto di aspirazioni, orientamenti, opinioni, passioni, atteggiamenti, hobby, etc. Anche se i comparti così costruiti sono una dozzina, e svariano dalla controcultura più scazzata all’aspirazionismo più esaltato, gli inserzionisti italiani tendono a selezionare i loro target fra le due o tre categorie di status (reale o presunto) più elevato. La pubblicità si tuffa in una specie di “griffismo” di massa, benedetto dal culto estetico della fitness, della cosmesi, della moda. E del testimonial. Molto à la page, ma povero di idee, il marketing si lancia alla caccia implacabile non solo di calciatori, attori, attrici e cantanti, ma anche di illustri semi-sconosciuti pervenuti ai fatidici quindici minuti di celebrità attraverso i reality show.
 
Una inquadratura da Reality (2012) di Matteo Garrone, storia di un pescivendolo – interpretato da Aniello Arena – ossessionato dal desiderio di partecipare a Il grande fratello.
La rivista Max pubblica ritratti di giovanotti a torso nudo prodotti con l’autoscatto. Se anche i ricchi piangono, come recitava il titolo della famosa telenovela messicana, ora si pretende – e talvolta si ottiene – che i poveri se la ridano felici, convinti come sono di poter sfondare nello show business come le veline o come il pescivendolo di Reality. Per i delusi non tutto è perduto: grazie al cielo ci sono il gratta-e-vinci e il superenalotto. L’Italia perde la bussola a velocità supersonica, affascinata dal nuovo che avanza anche quando nelle tasche e nel cuore non avanza niente di niente. Il berlusconismo premia i bocciati e, se carine ed eleganti, anche le bocciate. L’economia va sempre più in malora: molti negozi chiudono, ma si moltiplicano le palestre e i saloni di bellezza. La nuova destra decreta che si può accedere alla Camera e al Senato anche con un bel culo e un decente paio di cosce. La pubblicità si spoglia progressivamente di immaginazione ma, in compenso, prende il sopravvento sulla politica.
La nuova euforia italiana sorpassa qualsiasi confine etico preesistente, spacciandolo per cascame veterocomunista. Evadere il fisco sarà pure un reato, ma chi se ne frega. Corrompere e lasciarsi corrompere è una liberazione, dopo la tristezza monacale di Tangentopoli. In pubblicità ridurre il corpo della donna a pura decorazione si faceva anche prima, ma adesso è quasi “doveroso” dopo le scoccianti prese di coscienza “comuniste” degli anni settanta. Berlusconi detesta la malinconia dell’austerità e della correttezza; sforna promesse che eccitano il buonumore, così come le barzellette – spesso imbarazzanti – che adora raccontare.

Biscotti al crack

Difficile dire se l’attuale pubblicità italiana sia figlia, madre o sorella del berlusconismo. Dipende da cosa s’intende per pubblicità. Pensare che si tratti semplicemente di messaggi commerciali confinati entro moduli di spazio precodificati e catalogati in un apposito tariffario è riduttivo e obsoleto. Così come obsolete e depistanti sono ormai le diverse funzioni, distinzioni e definizioni una volta attribuite alla pubblicità, alla propaganda politica e alle relazioni pubbliche. Berlusconi è il più clamoroso fenomeno di self branding mai registrato, qui o altrove. Prima ancora di infrangere le regole etiche, politiche e istituzionali, ha infranto – a suo personale beneficio – gli schemi qualitativi e quantitativi della comunicazione e del marketing, elevandoli entrambi al rango di valori assoluti e dominanti. La sua difesa, negli scontri con la giustizia, con l’opposizione e con qualsiasi altro tipo di dissenso, non consiste tanto nella proclamazione di innocenza quanto nel fatto che è stato «eletto dal popolo» (successo elettorale che coincide appieno con un successo di marketing). In questa reiterata rivendicazione, che continua a suonare convincente alle orecchie di un cospicuo numero di devoti, si consuma un dissesto profondo della logica. Il berlusconismo non ha nulla a che fare con la razionalità.
Si può dire che con Berlusconi e i suoi adepti la pubblicità ha assunto la leadership, morale e politica, del paese. Fin dall’inizio Forza Italia è stata promossa (nel senso di “promozionata”) come un pacchetto preconfezionato di biscotti al crack. La campagna iniziale, condotta con ogni mezzo lecito e illecito, a tutte le ore e senza troppo badare al fair play, ha avuto l’effetto di lanciare repentinamente in orbita un partito-azienda che prima non c’era. Una delle chiavi del successo stava proprio nel fatto di connotare Forza Italia in senso apolitico. Troppi italiani, delusi dal “piove, governo ladro” di sempre e spesso affascinati dal qualunquismo, presero il liberismo e la negazione delle regole per libertà, e la lotta alle ideologie come una ventata di freschezza, di rinnovamento, di igiene mentale. La coalizione con la destra anche estrema e con la Lega Nord smentiva la conclamata “purezza anti-ideologica” del berlusconismo e si nutriva di nuove infrazioni al buonsenso: tanto da portare a Roma e al potere i nemici di «Roma ladrona» (slogan mille volte più efficace e deleterio di «Milano da bere») e consentire ai padani (gli “stranieri”!) di governare anche su chi padano non è né per geografia né performa mentis.

La politica come occlusione intestinale

Questa rivista si intitola Bill – Un’idea di pubblicità e il resoconto che mi è stato richiesto riguarda la pubblicità ai tempi del berlusconismo. Ma il berlusconismo stesso altro non è se non una case history pubblicitaria dagli effetti debordanti, e separare le due cose (il berlusconismo e la pubblicità) non aiuta a comprendere né l’una né l’altra. L’autopromozione di Berlusconi e dei suoi alleati è stata, purtroppo, la più grande ed efficiente campagna del secolo, con buona pace di Lavazza, di Barilla, di Ferrero, di Unilever e di Procter & Gamble. Ha stravinto per dimensione di budget, per sovraesposizione mediatica e, last but not least, per la qualità dell’insight: la reinvenzione e la legittimazione di una vecchia conoscenza, la volgarità. Intesa come ostentazione, successo ad ogni costo, esibizione di ossessioni vecchie e nuove (dal visone al Suv) e uso spregiudicato di temi sensibili (la giustizia, la famiglia, la bioetica, la sicurezza, il cristianesimo e quant’altro) ridotti al rango di merce elettorale.
La campagna di Berlusconi è stata stupefacente, ma è stato il target la vera sorpresa. Quando, da pubblicitari, andavamo alla kermesse di Cannes facendo brutte figure, i colleghi e i giornalisti stranieri ci domandavano: «Com’è possibile che il paese di Michelangelo, Raffaello e Leonardo da Vinci produca una creatività così sciatta?» Più tardi ci avrebbero chiesto, non solo a Cannes ma in interi continenti: «Com’è possibile che un paese colto e civile come il vostro si lasci guidare da un leader come quello?»
La rivoluzione edonistica degli anni ottanta, che al berlusconismo aveva preparato il terreno e che avrebbe disgustato oltre ogni misura un Erich Fromm e un Pasolini se non fossero morti nel frattempo, influì sul sentimento dell’italiano medio in maniera più determinante e incisiva di quanto avvenisse altrove. L’Italia era sempre stata campo di eccessi e contraddizioni. Nel bene e nel male. Con tre o quattro primati da Guinness: arte, cultura e paesaggio concentrati in un territorio di dimensioni modeste (record mondiale di siti dichiarati patrimonio dell’umanità dell’Unesco); alta moda; alta creatività enologica e gastronomica; malavita di indiscussa efficienza nazionale e globale (mafia, ’ndrangheta, camorra). Ingredienti che, agitati nello stesso shaker, possono produrre formidabili choc.
Lo shaker made in Italy dell’ultimo trentennio ha prodotto cocktail stravaganti come la mediasettizzazione della Rai, l’aziendalizzazione degli ospedali e delle scuole, la tentata privatizzazione dell’acqua da bere (altro che amaro Ramazzotti!), l’investimento mafioso in rami di business “dalla faccia pulita” (si fa per dire), l’equazione Gente = Money preconizzata dal magazine dell’editore Rusconi. E tant’altro, con condimento di sesso, Vuitton, 4×4 e derive razzistiche. Estranea alle nuove mitologie italiche sembra essere soltanto la cultura, roba da radical chic che, oltre a essere impegnativa, «non si mangia».
La grande illusione, proprio perché generata e rinvigorita da un’agenda propagandistica in fibrillazione permanente, si può leggere nelle pubblicità commerciali meglio ancora che nei saggi e negli editoriali. Se «Milano da bere» è rimasta negli annali della cronaca e della sociologia per quelle tre memorabili parole, una pletora di campagne di più modesto impatto e respiro contiene indizi di disumanità decisamente più inquietanti. Ricordo con orrore lo spot di un aceto (non ricordo la marca) ambientato nel giardino di una villa molto chic durante un party all’aperto. Un cameriere si fa sfuggire l’acetiera e una signora elegantissima si affretta a stendersi sul prato per leccare l’erba benedetta da quelle gocce balsamiche. C’è dentro la satira involontaria del berlusconismo: ricchezza, moda, eleganza formale, disprezzo della dignità femminile, erotismo, irrazionalità, kitsch a iosa.
Berlusconi e la propaganda sono una cosa sola. Dieci anni prima di darsi alla politica attiva, quando già gode di amicizie (Dell’Utri, Previti, Mangano) e benevolenze (Craxi) utili all’espansione del suo impero, e comincia a spostare il suo core business dall’edilizia alla televisione, gli italiani guardano a lui come all’incarnazione dell’imprenditore ideale. Con Publitalia incalza e seduce amministratori delegati di imprese grandi, piccole e medie promettendo spazi pubblicitari a prezzi stracciati: non esige fette di budget ma budget interi, secondo un programma costruito sul “dammi tutto e ti darò di più”. Poco importa se buona parte degli spazi promessi va in onda di notte o di prima mattina. Silvio e la sua squadra sono venditori di spazi come non se n’erano mai visti prima: trattano direttamente coi vertici aziendali, da pari a pari, bypassando manager, specialisti, consulenti, chiunque sia preposto alla valutazione tecnica degli acquisti di quel tipo. Nei primi anni novanta si intrecciano liaisons dangereuses con Giulio Malgara, che in quanto presidente UPA (Utenti di pubblicità associati) e fondatore dell’Auditel dovrebbe essere un’autorità super partes.
Il mondo delle agenzie pubblicitarie e dei centri media guarda all’uomo nuovo con un misto di rispetto e di acredine. Vuole capire. Nel 1984 Nuovo, la rivista di comunicazione e immagine dell’editore Enrico Robbiati[1], dedica una cover story al cavaliere, illustrato da Marco Perosa nelle vesti di Casanova. Il servizio è un’anteprima del libro I maghi del canale. Il romanzo di Berlusconi e le tv private italiane, del giornalista, critico cinematografico e operatore televisivo Pino Farinotti. Nel libro, pubblicato subito dopo da Rizzoli, l’autore attribuisce tutti i giudizi e i gossip sul cavaliere e il suo entourage a un alter ego immaginario, per premunirsi da eventuali azioni legali. Segno che qualcosa di losco sospetta, sebbene l’ammirazione per «il grande seduttore» sia più che evidente. Uno studio di Simone Berni, Libri scomparsi nel nulla (edizioni Simple, Macerata, 2007), dedica al romanzo-saggio di Farinotti una scheda ancor più sospettosa: «Di Berlusconi si dice in sostanza che è un genio della finanza e del mercato immobiliare. Si intravedono per lui scenari immensi, non solo nazionali. In parte, ci si azzecca. […] L’eccessiva disinvoltura nel riportare fatti e situazioni riservate può averlo reso sgradito al diretto interessato. Il libro può essere considerato piuttosto raro, sebbene Rizzoli ne abbia fatte stampare almeno diecimila copie. Finite dove?»
 
Roma, 2008. Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli. Foto: Alex Majoli, Magnum Photos.
Nonostante queste prove generali di scontro, il parterre dei pubblicitari continua a monitorare le mosse del cavaliere con una curiosità che rasenta l’attrazione. Nel 1989 l’Art Directors Club Italiano, allora presieduto da Emanuele Pirella, invita Silvio Berlusconi a una cena sociale all’Hotel Gallia di Milano per un confronto di idee. Silvio pronuncia uno dei suoi speech da convention americana per dire quanto vuol bene alla pubblicità e specialmente ai creativi. Alcuni però gli muovono delle critiche. Lo accusano di deteriorare il mercato e il tessuto professionale della pubblicità italiana offrendo alle aziende gli studi, le telecamere e i tecnici di Cologno Monzese per confezionare spot di infimo livello. Silvio nega inorridito l’evidenza dei fatti, secondo un copione che gli è congeniale e di cui subiremo tutte le evoluzioni successive.
Ammirato e chiacchierato, amato e odiato, l’uomo dai molti business porterà in politica le stesse strategie e gli stessi modi di fare sperimentati nell’edilizia e nell’editoria. La politica cambia, con lui, drasticamente di significato. Diventa obiettivo di potere e di affari fine a sé stesso, perdendo la sua natura di strumento al servizio del cittadino. La nazione si abbuffa di ideali mercantili e piccole distrazioni televisive, fino ad ammalarsi di un’occlusione intestinale che le impedirà di guardare seriamente al futuro.

«Pance felici, gente Activia»

In pubblicità, almeno nei comparti mediatici tradizionali, nulla si crea e nulla si distrugge. Una certa dose di volgarità è sempre esistita. Eppure qualcosa dello spirito del tempo finisce per salire a galla persino all’insaputa degli addetti ai lavori. «Pance felici, gente Activia» è il ritratto a suo modo perfetto del berlusconismo nell’epoca della sua maturità. Penso all’attivismo frenetico del cavaliere (fare, fare, fare) e al culto contemporaneo della wellness, intesa quasi come espressione di superiorità morale. La religione del lifestyle, che all’inizio della sua parabola indulgeva ancora a qualche modello pretenzioso e tutto sommato aristocratico, si è liberata delle noiose pastoie del galateo per abbracciare in toto la schietta sfrontatezza di una Wanna Marchi.
Ma anche questa “discesa” era prevedibile. Wanna Marchi non è un’invenzione di oggi. Ed era stata a sua volta preceduta dai pionieri di Aiazzone, il mobilificio di Biella che diventò famoso in tutta Italia per le ossessionanti televendite culminanti nello slogan «Provare per credere». Si sperò invano che l’aiazzonismo fosse un malessere passeggero. In realtà ha modificato in profondità i palinsesti televisivi: i programmi di largo intrattenimento (vedi, per esempio, il festival di Sanremo) si sono talmente gonfiati di telepromozioni da diventare “contenitori” anziché “contenuti”.
Se la pubblicità italiana ha perso quel tanto di charme che le rimaneva, ed è diventata un lavoro servile e malpagato, lo si deve – paradossalmente ­– proprio ai trionfi che le venivano decretati nei remoti anni Ottanta. La stagione felice dell’immagine, a base di class, capital & money, favorì per qualche tempo i pubblicitari lanciandoli come eroi del nostro tempo nel pianeta Quindici-Minuti-di-Celebrità. Un settimanale dedicò ai copywriter e agli art director un ampio servizio sormontato da un titolo malizioso: «Vieni avanti, creativo». I magazine pubblicavano inchieste su presunti fenomeni di costume senza mai dimenticare di sentire al telefono il parere di qualcuno di noi. Le domande erano spesso avvilenti, e ancora più avvilente era la sintesi decontestualizzata delle risposte, una volta stampate. «Ha visto Attrazione fatale? Secondo lei si inserisce nel trend del recupero dei valori familiari?» Al telefono non potevi nemmeno schiaffeggiarli, come fa Nanni Moretti con la cronista che lo perseguita in Palombella rossa. Una sconosciuta redattrice di Panorama osò rivolgermi una domanda più insolente: «Scusi, lei ce l’ha un’amante?»
 
Puglia, 2008. Ritratto di Berlusconi su un Tir. Foto: Ferdinando Scianna, Magnum Photos.
Tutto quell’andazzo doveva finire male, e male finì. Molti dirigenti d’azienda, forse per invidia e ripicca, cominciarono a diffidare dei guru, come la stampa di allora aveva preso a definirci. La tecnologia giocò a loro favore. Si accorsero che potevano scendere di persona nelle sale di montaggio, dove le ingestibili moviole erano state rimpiazzate dall’immediata prontezza dell’Avid, e modificare a piacimento le scelte del guru di turno.
Per celebrare il suo ventesimo anniversario, la rivista Media Key mi chiese di commentare l’evoluzione della pubblicità fra il 1982 e il 2002. Di recente ho riletto l’articolo e l’ho ripubblicato nel mio blog. Non contiene una sola parola sulla pubblicità italiana; parla solo di campagne internazionali. Non è strano? Noi avevamo Berlusconi, massimo profeta del “via libera alla comunicazione”; in teoria avremmo dovuto sfavillare. Invece ci siamo incagliati in un comunicazionismo da Zimbabwe.
L’ultima speranza, in ordine di tempo, si chiama internet. Contro la cattiva réclame, ma anche contro la berlusconeria. Chissà se saremo capaci di uscirne.
P.B.

[1] Nuovo fu un notevole esperimento di magazine gestito prevalentemente da pubblicitari. Tra i numerosi collaboratori Aldo Biasi, Sandro Baldoni, Ambrogio Borsani, Cesare Casiraghi, Daniele Cima, Pierluigi de Mas, Roberto Gariboldi, Gianfranco Marabelli, Marco Mignani, Till Neuburg, Lele Panzeri, Roberto Parisi, Alessandro Petrini, Emanuele Pirella, Roberto Pizzigoni, Antonella Pollini, Renata Prevost, Agostino Reggio, Fabio Ritter, Francesco Rizzi, Gavino Sanna, Anna Scotti, Hans-Rudolf Suter, Annamaria Testa, Armando Testa, Giorgio Tramontini, Fritz Tschirren, Pietro Vaccari, Marco Vecchia, Giampietro Vinti e me stesso.

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