
Verso il recupero dell l’archeologia industriale nel piacentino

di Fabio Bianchi
Uno dei tanti temi che ha preso – meglio sta prendendo – piede a Piacenza negli ultimi mesi è il recupero in generale delle testimonianze architettoniche del ‘900. Si è infatti costituito nei giorni scorsi – ai primi di giugno 2015, in via informale ma con grandi ambizioni – il “Laboratorio del ‘900“. Dovrebbe iniziare a riflettere su architettura, ambiente e paesaggio piacentino appunto del ‘900 anzi dei primi decenni del XX secolo. Ne fanno parte studiosi di varia provenienza, soprattutto architetti ma anche ingegneri, sociologi e artisti ma non mancano letterati e filosofi. Da quanto visto nei primi incontri gli sforzi sono indirizzati a recuperare – dal momento che a Piacenza non è mai stato fatto niente di sistematico in tal senso – l’archeologia industriale. Si potrebbe innescare un cortocircuito assai interessante perché coinvolgerebbe vari attori sociali con significative ricadute sociali. I privati e i proprietari disponibili a collaborare e/o riqualificare i propri complessi potrebbero ottenere significati vantaggi in termini economici ma anche morali. Verrebbero pure interessati istituti scolastici, di secondo grado (liceo artistico “Cassinari” o istituto per geometri “Tramello”) per effettuare rilievi e indagini preliminari storiche e cartografiche. Soprattutto dovrebbe esercitare un ruolo di guida il polo piacentino del Politecnico ai cui studenti verrebbero affidati progetti di recupero e di riutilizzazione di quei complessi.
A Piacenza nell’immediata periferia, nel circondario locale (15-20 chilometri di un ipotetico raggio) e poi proseguendo verso le prime propaggini appenniniche si stagliano ancora molti complessi a mezzo fra architettura rurale e archeologia industriale. La storia è spesso crudele, il progresso irrazionale e questi complessi – un tempo macelli, tabacchifici, genericamente opifici paleo-industriali, industrie conserviere, fornaci per laterizi …. – si stagliano imponenti, quasi fantasmi, quasi relitti in mezzo alla campagna. Oggi variamente utilizzati o come ricoveri o come fattorie recitano appieno il ruolo degli edifici dismessi e abbandonati pur avendo alcune caratterizzazioni tipologiche e volumetriche di assoluto rilievo e quindi potenzialmente potrebbe avere ben altra destinazione. Queste scatole, talora enormi nel loro rigore stereometrico, diventano fulcro e silenzioso magnete per la più o meno vicina città. Si potrebbero qui insediare laboratori artigianali, studi professionali, attività commerciali legate alla ristorazione, palestre per fitness e altro ancora cioè attività che non implicano stravolgimenti. Ritorna qui il fascino del progetto, eclettico, trasversale ed innovatore, sempre comunque in grado di arricchire e rivitalizzare un contesto in senso soprattutto ambientale per la possibilità di inserirvi molte forme di verde. Attraverso l’architettura si può decifrare, comprendere, forse odiare l’architettura stessa che obbliga a cambiamenti, adattamenti e trasformazioni sempre però rispettando il nucleo iniziale. Perché, come recita un adagio, il pensare divide, il sentire e il condividere uniscono sempre. Anche qui potrei fornire statistiche e dati ma avrebbero un valore per ora, ritengo, limitato: infatti il gruppo di studio ha isolato 50 complessi che nell’immediato futuro potrebbero essere agevolmente recuperati.