
Dieta sostenibile: intervista con Luigi Boschi, blogger e vegano della prima ora

di Maria Elena Mozzoni.
Sono ormai decenni che il popolo vegano sostiene quanto la dieta da loro praticata oltre ad essere una scelta etica sia soprattutto una scelta di sostenibilità ambientale. Infatti se è vero che il veganesimo ancor prima di essere una dieta è uno stile di vita è vero altresì che le persone che vi aderiscono scelgono un percorso ecologista e salutista intrapreso con una non comune consapevolezza.
Ma cosa è la dieta vegana e perché è sostenibile dal punto di vista ambientale? Ne parliamo con Luigi Boschi, scrittore, blogger, vegano dal 2003, quando a Parma non se ne parlava e in Italia iniziavano ad agire le prime associazioni organizzate.
Boschi cosa è nello specifico la dieta vegana?
E’ una scelta etica di consapevolezza e responsabilità sotto diversi punti di vista: ambientale, sociale, animale, salutistico. Sostanzialmente si tratta di evitare il consumo non solo di carne animale ma di tutti i prodotti di derivazione animale.
Perché i pasti che consumiamo ogni giorno sono legati all’immissione di gas serra ed alla devastazione di aree forestali?
E’ molto semplice: per gli allevamenti intensivi che sono delle bombe di devastazione ambientale. Ed è pure diseconomico. Se non ci fossero i sussidi pubblici, gli allevamenti intensivi chiuderebbero e le persone capirebbero qual è il vero costo della carne. Si distruggono intere foreste per coltivarci mais e cereali da dare agli animali. Pensate, sei Kg di proteine vegetali date al bestiame sotto forma di cereali restituiscono solo 1 kg in media di proteine animali. Gli Allevamenti intensivi sono fabbriche al contrario: lo sprecano, non lo producono. E pure l’acqua. E dentro a quel cibo c’è tutto il veleno del dolore animale costretti a vivere in luoghi di sofferenza. Inquinano poi con i loro liquami fino a rendere pericolose le falde acquifere. Ci sono aree nel mondo occidentale e orientale completamente avvelenate. Tutto documentato. Dovrebbero essere chiusi e così finirebbero tantissimi problemi. Si deve abbandonare la pratica di dare da mangiare cereali al bestiame allevato intensivamente al chiuso per ottenere più carne o più latte. L’allevamento intensivo ha messo gli animali in competizione diretta con l’uomo. Non c’è terra sufficiente per sfamare nel prossimo futuro 10 miliardi di persone e 7 miliardi di animali.
La zootecnica (ovvero l’allevamento di animali) che impatto ha sulle riserve di acqua del pianeta e sulle risorse del suolo?
Due miliardi di persone al mondo non hanno acqua a sufficienza, si prevede che il numero sia destinato almeno a raddoppiare. Il 70% delle scorte di acqua dolce al mondo è usato per l’agricoltura. Pare che per produrre un chilo di manzo servano 15mila litri di acqua. Per un chilo di proteine animali occorre un volume d’acqua 15 volte maggiore di quello necessario alla produzione della stessa quantità di proteine vegetali. Una vacca da latte beve 200 litri di acqua al giorno, 50 litri un bovino o un cavallo, 20 litri un maiale e circa 10 una pecora. Gli allevamenti consumano una quantità d’acqua molto maggiore di quella necessaria per coltivare soia, cereali, o verdure per il consumo diretto umano.
Fiumi inquinato da liquami di allevamenti intensivi
I vegani sostengono che il business degli allevamenti intensivi è sempre più deleterio anche dal punto di vista della salute pubblica. Qual è la sua opinione e ci sono dati oggettivi che possano sostenere il punto di vista vegano?
Certamente. E’ scientificamente dimostrato che i vegani che adottano una dieta completa sono più in salute rispetto agli onnivori. Molte malattie come il cancro al colon e le malattie derivanti dal colesterolo alto sono praticamente assenti nei vegani. Non solo allevamenti di bovini, suini, polli, ma anche di pesce. Pensi che la farina di pesce è uno sporco traffico dell’industria dell’allevamento. Una catastrofe ambientale. Vengono estratti dal mare milioni di tonnellate di pesci piccoli per trasformarli in olio e farina destinati ai maiali, ai polli, e ai pesci di allevamento. Si privano pesci e uccelli selvatici delle loro prede naturali. Nelle baie si scaricano grassi di scarto creando zone morte inquinando l’atmosfera e causando gravi malattie alle persone. Perù e Cina sono devastate lagune intere.
Il Perù è leader mondiale di produzione di farina di pesce con un milione di tonnellate all’anno. Chimbote è capitale dell’industria della farina di pesce. La vita marina è sacrificata per gli allevamenti intensivi.
Il consumo di proteine animali è visto come uno status di benessere, l’aumento del consumo della carne è storicamente coinciso con la crescita economica degli Stati ma lo sviluppo di veri e propri colossi come la Cina e l’India cosa comporterà nel prossimo futuro se non si riesce a invertire la tendenza del consumo di carne animale?
Sarà il collasso del sistema se adotteranno le nostre stesse tecnologie. Lo stile alimentare occidentale che ora sta pervadendo i Paesi asiatici e in via di sviluppo determinerà il collasso dello stesso. Imploderà. I consumo globale di carne continua a crescere rapidamente: solo dal 2007 al 2008 si è passati da 275 a 280 milioni di tonnellate di carne prodotta in tutto il mondo, e la FAO ha stimato che entro il 2050 si arriverà a 465 milioni di tonnellate. Anche la produzione di latte, secondo le previsioni, è destinata a crescere velocemente, passando da 580 milioni di tonnellate del biennio 1999-2001 a 1043 milioni di tonnellate entro il 2050. Stiamo arrivando allo scontro tra le multinazionali alimentari. Le loro piattaforme tecnologiche di processo e digitali hanno bisogno di risorse naturali. Acqua e terra. Ora sono utilizzate dall’industria della carne o di alimenti di derivazione animale che inquina l’acqua fino alle falde acquifere e restituisce terreni putridi. Basta vedere le immense lagune di liquame, più di 3.000, sono sparse nello Stato della North Carolina. Mari di letame ovunque ci siano allevamenti intensivi. E il gigante Smithfield, la più grande unione aziendale suine al mondo, proprietaria della maggior parte dei maiali nello Stato, si dichiara non responsabile degli escrementi: “La Smithfield pretende di affermare che quando la merda esce dalla parte posteriore del maiale non appartiene più a loro, ma all’allevatore che cresce i maiali per loro”. Ci sono zone morte nel mondo derivanti dai rifiuti degli allevamenti intensivi che devastano ambiente, economia del turismo e contaminano l’acqua potabile. Muoiono pesci e uomini. Una stima approssimativa del costo totale per ripulire l’America dagli effetti di questi allevamenti intensivi potrebbe superare i quattro miliardi di dollari.
Ritiene che oggi sia il momento giusto per spiegare a una fetta sempre maggiore di popolazione le ragioni del mondo vegano?
Secondo il rapporto 2014 Eurispess i vegani in Italia sono solo il 7,1% della popolazione, quali sono a suo giudizio le chiavi per intercettare milioni di persone che per tradizione e per abitudine mangiano carne una o due volte al giorno? Sì sono in aumento in Italia, ma è troppo poco. Le persone capiscono solo quando sono colpite nel portafoglio e nella salute.
Persiste ancora molta ignoranza e insensibilità, anche nel mondo sanitario (si demonizzano i vegani), poca cultura e consapevolezza. Nella stragrande cultura popolare gli animali (ad eccezione di quelli da compagnia) sono considerati cose da reddito e da mangiare. Non c’è compassione né consapevolezza della loro non vita fin dal concepimento. Sono parte integrata di un processo produttivo. Non si percepisce ancora, o si fa finta di non capire, il dolore animale e la prossima catastrofe ambientale e sociale. Un sistema consolidato e partecipato, cambia solo per collasso. Non c’è altra via. Se non hai vissuto la guerra e se non hai provato il dolore della malattia non riesci a rendertene conto. La devi provare sulla tua pelle e allora sì riesci a renderti sensibile. Un sistema in cui in grandissima parte le persone si nutrono di alimenti di derivazione animale, pure da tradizioni familiari; e poi tantissime sono le persone che lavorano nella filiera, troppi gli interessi coinvolti direttamente o indirettamente. Si dovrebbe intervenire politicamente, togliendo ogni sussidio alla filiera economica di derivazione animale, vietare gli allevamenti intensivi e i mattatoi. Finché non ci sarà una presa di coscienza politica il popolo non se ne curerà. Abbiamo visto cosa è successo con le sigarette. Lo stato era produttore di morte. Vediamo quanta fatica occorre per fa smettere di fumare i fumatori pur di fronte a evidenze scientifiche. L’uomo è un essere che si rende facilmente dipendente dai consumi di sostanze e di cibo. In particolare con alimenti e prodotti che creano dipendenza.
In un distretto alimentare come quello dell’Emilia Romagna esiste una strada percorribile per sposare una antica tradizione e le problematiche sviluppate dal processo di industrializzazione dell’allevamento animale?
No, a meno che non si creda nella carne chimica, nel simulacro di un prodotto similare. E’ però vero che si potrebbero convertire industrie con produzioni di derivazione animali in quelle di prodotti vegetali. Ma dovrebbero essere incentivate a farlo da iniziative politiche a livello nazionale e europeo. Gli esperti delle Nazioni Unite prevedono che entro il 2100 la popolazione mondiale avrà superato la soglia dei dodici miliardi persone. Le risorse naturali che già oggi scarseggiano, come l’acqua che per oltre un miliardo di persone è già una rarità, si saranno quasi del tutto esaurite. Quale sarà il cibo del futuro? La desertificazione avrà fatto passi da gigante sulla West Coast e nel Midwest statunitense e lungo il confine messicano. Le peschiere mondiali che sono già allo stremo si saranno quasi del tutto esaurite e l’aria sarà notevolmente più tossica di quella che respiriamo adesso, particolarmente nei paesi emergenti, mentre il tasso di obesità della popolazione – dovuto prevalentemente alla proliferazione di cibi sintetici e da stili di vita insalubri- avrà raggiunto livelli stratosferici. Immaginare come sfamare così tante persone, nelle condizioni che si prospettano, è probabilmente la sfida maggiore con la quale l’umanità dovrà confrontarsi nel prossimo futuro. E mentre preservare, riusare, riciclare e ridurre i consumi sono misure che possono contribuire a evitare questo scenario apocalittico, in assenza di alternative al corrente modello di sviluppo economico, diventano solo palliativi che dilazionano nel tempo il disastro ecologico-alimentare verso il quale stiamo procedendo a tutta birra. Questi scenari non preoccupano solo i politici e i pianificatori sociali ma anche i ricercatori, gli scienziati e le aziende che operano nel campo agricolo, alimentare e della nutrizione umana. La necessità di sviluppare un modello alimentare sostenibile a livello globale è stato anche il tema centrale del settantacinquesimo convegno deIl’Institute of Food Technologists – la principale associazione di scienziati, disegnatori e produttori di cibo del mondo – conclusosi in questi giorni a Chicago. E qui nella Food valley, che si fa? Sostanzialmente nulla. Ci si riempie la bocca con la gastronomia Unesco e si tace sul catastrofico risultato dell’economia alimentare di derivazione animale.
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