
“L’isola che non c’è” è a Boretto

di Martina Pasini
“Voi per qualche ora fate finta di essere due bambini di tre e quattro anni” questa sembra essere l’unica condizione impostaci dal Re del Po per entrare nel suo mondo, l’isola di Pan.
Antonio Manotti, alias il Re del Po, classe 1942, abitante e regnante a Boretto, Reggio Emilia, ci accoglie appoggiandosi ad un bastone: le mani grandi e nodose screpolate dal freddo, e le dita annerite dal lavoro e dal tempo, sembrano essere parte di uno dei tronchi dei grandi alberi trasportati dalla corrente del fiume e alla quale Antonio quotidianamente dà la caccia con la sua barchetta a remi. “Ho i sensori per scovare quello che il fiume ha da offrirmi”, ci racconta Antonio ridendo con gli occhi.
All’entrata, un cartello da non prendere troppo sul serio avverte: “Danger”. Sullo sfondo si erge una strana costruzione, intrico di alberi, rami e bandierine colorate. Avvicinandoci alla riva Antonio ci mostra alcuni dei pezzi della sua collezione: un totem a forma di struzzo modellato dal fiume, era uno spinoso albero di rubino dal legno molto resistente, ci spiega.
Il Re del Po è molto orgoglioso della sua costruzione: “Per fare il Colosseo hanno iniziato dalla prima pietra, giusto? Questa è la mia prima pietra” e ci mostra un papero, o meglio un tronco di un ontano attorcigliato su se stesso con le sembianze di un papero, il primo souvenir del Po dal quale Antonio ha iniziato a costruire. “Il Re del Po ha piantato più di centotrenta piante, è il più buon uomo del mondo, ha solo la roncola e la scure”, ci spiega Antonio che parla di se stesso in terza persona.
Ognuno da bambino ha immaginato l’isola che non c’è a modo suo: Antonio l’ha costruita utilizzando i legno che il fiume gli porta. Difficile dire a cosa somigli, perché è fatta della stessa sostanza eterea dei sogni: è un castello, una nave, un ponte, un osservatorio?
“Non è un parco giochi, perché quelli sono moderni, qui è tutto allo stato brado” precisa il Re, riportandoci sulla terra ferma. “Io ho il Po, la natura, i bimbi. Se non ci fossero i bimbi come faremmo? I genitori accompagnano i figli ma dopo stanno bene anche loro. Qua vengono tutti, italiani, indiani, pakistani, cinesi.” Per convincermi mi prende per un braccio e apre la porta chiusa a chiavistello del suo salotto-saloon per mostrarmi il libro delle dediche. “Questa è l’isola di Pan. I bambini che hanno scritto sul mio libro fra cinquant’anni magari saranno famosi e lo pubblicheranno in tutto il mondo, perché qui sono stati bene. Se scrivi, ci sei”.
Sfoglio il libro, che è del 2016 e quindi è quasi tutto bianco: “Mi sono molto divertita, G.”,
“E’ un posto magico dove regna la fantasia dei bambini”, “L’isola di Pan mi è piaciuta moltissimo, soprattutto passeggiare sul ponte, Rachele.”, “Molto bello si sta benissimo, Ester”, “Mi è piaciuto molto, Mirko B.”
“Io riciclo tutto, non butto via niente. Il lampadario che vedi è il secondo che ho costruito perché due anni fa sono venuti dei briganti e me l’hanno rubato, pesava due quintali e mi hanno rubato anche la barca: se li becco!”. Alziamo le teste: il salotto-saloon era “illuminato” da un fantasiosa composizione di tronchi di alberi diversi da cui spenzolano un gancio di una tenda, un cestello per la cottura a vapore e altri oggetti riciclati. Il salotto-saloon è circolare, tutto costruito in legno e al suo interno, oltre un tavolo e a delle sedie, hanno ripreso vita una quantità di oggetti di scarto recuperati da parenti e amici e ri-assemblati secondo il gusto del padrone di casa. Alle pareti sono appese pentole di ogni tipo e dimensione, una sciarpa di Che Guevara, bandiere sulla difesa dell’acqua come bene comune e fotografie.
Uscendo, scendiamo sulla riva: il fiume è in secca, tra noi e l’acqua ci sono almeno cinquecento metri di spiaggia, la sabbia è bianca e finissima. Per decenni, mi spiega Antonio, hanno rubato quintali e quintali di sabbia al fiume, tanta gente di Boretto si è arricchita così, fino a quando non l’hanno proibito.
L’esplorazione dell’isola di Pan prosegue: Antonio mi accompagna al balconcino per le donne, che una volta si chiamava balconcino per le donne belle, “ma poi una volta – ci racconta Antonio- è arrivata una maestra che era brutta come una strega e allora gli ho cambiato nome, meglio stare sul generico”. Il balconcino per le donne è un ritaglio di spiaggia leggermente rialzato che, nei momenti in cui il fiume ha un livello regolare, dovrebbe sovrastarlo e quindi le donne sdraiate a prendere il sole sarebbero rinfrescate dagli schizzi dell’acqua del fiume che le raggiunge. Niente è lasciato al caso.
Sopra le nostre teste si erge maestosa la prua di Iolanda, la barca che porta il nome della mamma del Re del Po; per raggiungerla bisogna arrampicarsi su delle passerelle che, assicura Antonio, sono sicurissime perché controllate da lui stesso quotidianamente. Arrampicarsi, esplorare, essere curiosi di vedere cosa c’è lassù, irrazionalità e istinto danno uno spintone a razionalità e regolatezza: il cervello si spegne, tutto indaffarato com’è a produrre aspettative, a riempire i polmoni di aria frizzantina, a immaginare di volare sulla prua di Iolanda verso altri mondi, altri luoghi, altre genti.
“Una parte dell’isola è riservata agli innamorati”, Antonio sorride e punta il dito verso un’ala della costruzione: è un osservatorio da cui dall’alto si può osservare il Po, il nome è dovuto alla sua posizione appartata. Lo sguardo torna sulla terraferma: il bastone delle nostra guida si ferma a indicare qualcosa che sembra proprio… “Questa è la mia televisione, i bambini si divertono da matti perché ci si infilano dentro e fanno le previsioni del tempo”. La televisione è una testiera di un vecchio letto in legno di cui era rimasta solo la cornice e a cui la nostra guida aveva applicato ai lati dei tappi di sughero che, ruotando su se stessi, avevano la magica facoltà di cambiare canale.
Poco lontano dal televisore schermo ultrapiatto a cristalli liquidi, il gioiello di Antonio: “paesaggio di fiume”, una sorta di presepe perenne, in cui nelle festività vengono aggiunti Gesù Bambino e, a tempo debito, i Re Magi. L’acqua del Po scorre lungo le montagne del “paesaggio di fiume” e dopodiché viene raccolta in un secchio da cui, attraverso una pompa, scorre nuovamente giù dalla montagna. “Il taglialegna sono io”, mi confida il Re del Po, sbirciando da sotto il cappellino a visiera rosso sul quale fieramente troneggia “Re del Po”.
Il resto dell’isola di Pan sulla terraferma è dedicata a decine di giochi costruiti dal Re con le sue mani: altalene, tunnel, carrucole, canestri, giochi vecchi e giochi nuovi re-inventati e declinati secondo la fervida immaginazione di Antonio che ci lascia il meglio alla fine: il trono del Re del Po e quello della regina, che il Re sta ancora aspettando. E’ appollaiato al riparo di una torretta, quella più vicina alla riva: per arrivarci bisogna arrampicarsi e camminare su una passerella, ma la fatica vale la pena, il paesaggio è magnifico nonostante la nebbiolina appena sopra il pelo dell’acqua.
Il tornado del 2013 aveva distrutto tutto ma Antonio si è rimboccato le maniche e in pochi giorni ha ricostruito la sua isola, in cui crede come si crede nei grandi sogni e nei grandi amori.
L’isola di Pan è una speranza: quella di riuscire a recuperare, come Antonio che ha legato la sua vita indissolubilmente a quella del fiume, quel rapporto speciale che nel rumore di tutti i giorni abbiamo perso con la natura che ci circonda e ci ospita: tendere l’orecchio e sapere ascoltare, questo è il consiglio implicito del Re dell’isola che non c’è. Nella realizzazione del suo mondo immaginifico, Antonio e la sua fantasia lasciata libera di galoppare e di esprimersi senza aspettative e senza alcun tipo di interesse, esattamente come quella dei bambini, apre una finestra sul mondo e ci invita a ricordarci che uscire dai meccanismi del sistema anche solo per qualche ora è possibile, lasciandoci alle spalle tutti i condizionamenti e le regole a cui siamo quotidianamente soggetti. Le rive del grande fiume sono per Antonio un foglio bianco in cui è possibile disegnare con il pennello dell’immaginazione forme e concetti e fare in modo che prendano vita, che si possano toccare con mano. Appoggiandosi al suo bastone, con il sorriso sul viso e l’innocenza negli occhi, Antonio salutandomi mi chiede: “E tu come mi hai trovato? Hai i sensori anche te?”
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