
Tabga: quando la guerra fa scioperare l’acqua

di Lucia Cicciarelli
Accade spesso di leggere, da anni ormai, cosa succede se viene a mancare una risorsa vitale come l’acqua e quali sono i danni che si ripercuotono, di conseguenza, su interi stati.
Cosa avviene, però, se in una situazione ambientale precaria arriva il peso schiacciante di una guerra senza fine? O per meglio dire, come può dissolversi e risolversi il binomio guerra-catastrofi ambientali? È quello che sta vivendo in maniera irreversibile la Siria in questi ultimi mesi, in seguito al totale blocco del funzionamento della diga di Tabga, situata nell’omonima città e fonte di elettricità, data la sua funzione cruciale di centrale elettrica per tutto il territorio circostante. Cruciale ne è anche la posizione, essendo nel mezzo dell’Eufrate.
Alla fonte di tutto ciò c’è il fatto che quest’ultima è controllata, ormai dal 2014 dallo Stato Islamico. È da quell’anno, infatti, che i raid della coalizione internazionale tentano di strapparla all’ Isis e liberarla, insieme all’intera città. Un’aggravante sta nel fatto che l’Isis stesso ha fatto di questa diga un suo nascondiglio, con la consapevolezza e la certezza che i bombardamenti non possono perciò essere fatti contro la diga stessa, poiché ciò coinvolgerebbe in maniera nefasta anche i cittadini innocenti. Il Wall Street Journal ha vociferato qualche tempo fa che potrebbe poi esserci, dietro l’alibi della diga, una prigione segreta dello stesso Stato Islamico, nella quale risiedono anche pericolosi individui di cui sono scomparse da tempo ormai le tracce.
La diga ha pertanto smesso di funzionare in seguito ai tentativi di minaccia che la colpiscono senza sosta da qualche giorno, esattamente dal 26 marzo scorso. Ciò che preoccupa l’Onu nelle ultime ore è il fatto che la diga in questione abbia bisogno di cure costanti e c’è il rischio che straripi, specie dopo la constatazione recente dell’innalzamento delle acque di 10 metri dallo scorso gennaio fino ad oggi. Nella morsa, come spesso accade, ci sono i cittadini, e a repentaglio è la loro vita quotidiana, nonché la salute.
Di fatti come questi ce ne sono stati nel passato, e hanno lasciato il segno indelebile, a volte un segno irreversibile e drastico, come è stato in Darfur che, oltre a dover affrontare un processo di minacciosa desertificazione sempre più rapido, ha vissuto per anni una dura e profonda guerra tra popolazioni nomadi e popolazioni stanziali, con la conseguente morte di un milione e mezzo di persone. Le prime, quando hanno visto i loro territori desertificarsi e lentamente scomparire, sono dovute andare ad “invadere” i territori delle seconde, provocando contrasti asprissimi. A condire il tutto, il problema dell’approvvigionamento petrolifero in Sudan, che ha spinto civili a ricorrere alle armi per difendersi e difendere il terreno e i suoi tesori esauribili.
Sono le eco guerre, così definite e descritte da disparate testate giornalistiche. Che potrebbero essere rappresentate da un grande cane che si morde la coda: si lotta fino alla morte per avere una risorsa naturale, la risorsa si esaurisce, si lotta di nuovo poiché bisogna stare accalcati tra popoli e culture differenti per condividere le ultime risorse e così via dicendo.
I dati del 2015 riguardo il futuro della Siria a tal proposito e di altri territori in situazioni altrettanto allarmanti parlano chiaro: “Si stima che entro il 2050, ben 250 milioni di persone potrebbero essere fuggite da aree vulnerabili per l’innalzamento del mare, tempeste o inondazioni”, ha affermato il World Watch Institute in un suo rapporto nello stesso anno, in occasione della COP21 a Parigi.
Cosa ne sarà della diga di Tabga e delle persone che, è il caso di dirlo, sono con l’acqua alla gola? La speranza è che non si respiri la stessa aria di morte del Darfur, visto che si parla già di un paese, quale la Siria, che vive in piena siccità di serenità, e ormai nemmeno l’acqua riesce più a dare la vita calma e costante. Anzi, viene usata come ricatto e limitazione. Difatti l’Isis ha ordinato ai cittadini di Tabga e di Raqqa, loro roccaforte ufficiale, di andare via per evitare l’inondazione eventuale. Ed ecco di nuovo una storia di popoli spersi e sparsi, che in questo caso hanno comunque trovato l’ultimo spiraglio di salvezza nell’acqua, che non li ha ostacolati: mediante barche hanno infatti potuto attraversare il fiume Eufrate, per andare a rifugiarsi ad al Kasarat e Jamiat al Furat. Questo sta ad indicare che non è mai la natura a tradirci, ma siamo noi a non esserle fedeli.
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