
Il ponte è mobile. Anzi instabile, pericolante.

Martina Rivara.
‹‹Forse sono più sicuri quelli di origine romana››. Nel 2018 suona strano parlare di instabilità riferendosi a ponti costruiti in epoche moderne che collegano una riva e l’altra dei fiumi, colme di strumenti e di possibilità di perfezionamento che dovrebbero renderli stabili, sicuri e duraturi.
Sembra un paradosso, un fatto inspiegabile per l’epoca in cui viviamo dove con un semplice click si può raggiungere l’altra parte del mondo stando comodamente seduti sulla poltrona di casa. Eppure quello dei ponti pericolanti pare essere un problema ed un argomento molto battuto ultimamente dai giornali nazionali, regionali e dai quotidiani locali, oltre che dalle tv e dai social.
Vi sono alcuni esempi concreti che possono fare luce sulle possibili cause che denotano un tale disastro.
È possibile partire addirittura dal lontano 1800, precisamente tra 1836 e 1839, venne costruito il “Pont de la Basse – Chaine” ad Angers in Francia, si trattava di un ponte sospeso. Ebbene si, nemmeno lui ha avuto vita lunga: crolla il 16 aprile 1850: un battaglione di soldati francesi lo stava attraversando, allo stesso ritmo di marcia; non erano passati nemmeno vent’anni dalla sua “nascita”. Le cause del collasso vengono attribuite alla risonanza, causata dalla marcia dei soldati che avrebbe incrementato le oscillazioni provocate da un temporale e l’usura degli ancoraggi.
Si arriva poi al 1940, anno in cui il Tacoma Bridge viene aperto al traffico. Si trattava di un ponte a Washington (USA) che attraversava il canale Tacoma Narrows, era uno dei ponti sospesi più lunghi dell’epoca: 1600 m. Ma anche questo, dopo soli due mesi dalla costruzione crollò a causa di un vento che soffiava a 68 Km/h.
Ma arriviamo ai giorni nostri, siamo nel 2000. Viene inaugurato il “Millenium Bridge” a Londra, un ponte pedonale che unisce le due rive del Tamigi: chiuso dopo soli due giorni dall’apertura per le oscillazioni causate dal transito delle persone. All’indomani di questo evento è già pronto il nuovo nome: “Wobby Bridge”, ovvero, ponte instabile.
Il ponte come appare oggi, dopo la stabilizzazione costata 5 milioni di sterline, che ha consentito la riapertura nel 2002.
Ma torniamo a noi, al nostro Paese, in particolare ai ponti di Parma e della sua provincia, parecchi dei quali sono stati dichiarati: instabili. Si tratta del ponte di Ragazzola, meglio conosciuto come “Ponte Verdi”, del ponte di Casalmaggiore, del ponte del “Diavolo” di Gramignazzo.
Tutti questi sono stati costruiti tra quaranta e sessant’anni fa, addirittura il ponte del “Diavolo” ha resistito ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, da cui deriva poi il nome.
Pare dunque che i segni del tempo si facciano sentire.
Nonostante gli interventi di ristrutturazione, si susseguono sempre più problemi strutturali, come dimostrano le varie chiusure dei medesimi.
Se pensiamo al ponte di Gramignazzo, esso fu decretato pericolante a seguito di una grande piena del fiume Taro: il letto del corso d’acqua era sporco, non è mai stato pulito per l’opposizione dei “Verdi”, di conseguenza i vari detriti, tronchi e rami di alberi, andavano ad impattare contro le colonne portanti del ponte che, a lungo andare, hanno iniziato a perdere resistenza e a mostrare crepe.
Ebbene si, proprio per questo il ponte è stato chiuso completamente al traffico sia pedonale che automobilistico per un paio di anni, costringendo coloro che abitavano dalle due parti a fare un interminabile giro per raggiungere il luogo di lavoro e, la sera, le loro abitazioni.
A settembre 2016 viene riaperto.
Ponte del Diavolo, Gramignazzo (Sissa Trecasali, Parma)
Problemi risolti? Possiamo quindi stare tranquilli?
Questo risulta essere un dilemma, in quanto il passaggio è permesso a senso alternato, venendo gestito da semafori posti ai due imbocchi della struttura stessa della durata di 2 minuti circa. Inoltre, l’attraversamento dei camion che superano i 35 quintali, fatta eccezione per i residenti del comune di Sissa che non superino i 70 quintali, è assolutamente vietato, problema che prima della chiusura non sussisteva. Si può parlare di sicurezza allora?
Ma c’è di più…
Durante le piene del fiume Taro la normativa di sicurezza prevede addirittura la chiusura completa del ponte fino a che non sia scongiurato ogni tipo di pericolo.
A questo punto la domanda che ci si può porre, posto che le colpe sono umane, di incapacità politica, nella corretta gestione del territorio e delle infrastrutture, piuttosto che della forza travolgente delle acque, è una sola. Paradossale, ma nemmeno tanto: che sia il caso di ritornare al passato, ai famosi ponti di barche ?
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