
Non è tutto oro il petrolio… che luccica. Mini reportage dalla Basilicata

di Enza Immacolata Martoccia
Il giacimento petrolifero più grande d’Europa sulla terraferma è in Basilicata (diventata il Texas d’Italia). Si tratta del Centro Olio Eni di Viggiano (COVA) che è attivo dal 2001 ed occupa una superficie di circa 180.000 m2 . All’interno del COVA vengono trattati gli idrocarburi prodotti dal giacimento, separando olio, gas e acque di strato. Viene stoccato l’olio greggio in appositi serbatoi per poi essere trasferito tramite oleodotto alla Raffineria di Taranto. Viene immesso il gas metano desolforato, disidratato e condizionato nella rete di distribuzione nazionale Snam Rete gas attraverso una stazione di pompaggio. Infine viene depurata l’acqua di strato dai residui di idrocarburi e di gas all’interno del COVA, per poi smaltirla nei c’entri con di trattamento autorizzati. Il COVA ha una capacità di trattamento giornaliera di 104.000 barili (circa 16.500 m3 di olio) e di 4.660.000 Sm3 di gas associato al greggio. Il petrolio, l’emblema della ricchezza, però se non saputo usare può provocare seri danni. Dunque non sempre quest’oro nero luccica e questo lo sanno bene i cittadini della Val d’Agri. In Lucania, su questo tema, si è formata una grandissima spaccatura: da una parte c’è la sfiducia del popolo e delle associazioni ambientaliste contro gli enti di controllo, dall’altra l’Eni che rigetta tutte le accuse di obsolescenza sputategli contro perché a suo dire “l’impianto è tra i migliori dal punto di vista tecnologico”.
Purtroppo un terribile incidente avvenuto nel 2017 ha portato allo sversamento di 400 tonnellate di petrolio e altri agenti chimici inquinanti nelle acque attorno all’area industriale di Viggiano in Basilicata con conseguenze nefaste su ambiente e territorio.Il centro olio Eni dopo tre mesi di chiusura ha ripreso regolarmente l’attività estrattiva.
A pochi mesi di distanza dal terribile disastro è stato presentata la Valutazione di Impatto Sanitario (VIS) sul petrolio lucano per rispondere ai cittadini sempre più determinati a conoscere la verità sugli effetti che il COVA ha sull’ambiente e sulla salute dell’uomo. La raccolta dei dati della VIS ha avuto inizio nel 2009 e lo studio ha riguardato i due comuni più vicini all’impianto: Viggiano e Grumento Nova. L’indagine epidemiologica effettuata dall’Istituto di fisiologia clinica del CNR di Pisa coordinata da Fabrizio Bianchi ha effettivamente riscontrato segnali di possibili effetti. In particolare, uno studio sull’intera popolazione dei due comuni ha osservato eccessi di mortalità e di ricoveri per malattie cardiocircolatorie e in misura minore anche respiratorie correlabili all’esposizione agli ossidi di azoto, assunto come marcatore di altri inquinanti come il biossido di zolfo e l’acido solfidrico. Ma la preoccupazione va anche ai composti organici volatili emessi dall’impianto, e tra questi gli idrocarburi non metanici, una classe di inquinanti poco studiati e neanche normati a livello europeo e nazionale. Per alcuni effetti riscontati nello studio manca la significatività statistica, anche in ragione del limitato numero di casi osservati. Solido è invece l’aumento di rischio rispettivamente del 41 e del 63 per cento di ammalarsi o morire per cause circolatorie soprattutto nlle donne più esposte rispetto alle meno esposte.
Per l’Osservatorio popolare della Val d’Agri: “L’assemblea pubblica per la presentazione della VIS ha confermato, tramite i dati diffusi, la fondatezza di preoccupazioni che come cittadini abbiamo sottoposto alle istituzioni preposte già da molti anni. L’eccesso di mortalità e morbilità riscontrato nello studio epidemiologico realizzato dal gruppo di studio coordinato dal Prof. Fabrizio Bianchi del IFC-CNR di Pisa rendono – se ce ne fosse bisogno – ancor più inequivocabile la
pericolosità, tanto per la tutela ambientale, che per la salute umana, delle emissioni del Cova. Un’evidenza questa che si situa in perfetta continuità con gli avvenimenti degli ultimi due anni:
* l’inchiesta in corso della Procura di Potenza che ha contestato a Eni il reato di disastro ambientale per falsificazione dei codici CER e manomissione degli sforamenti delle emissioni del COVA;
* l’incidente del 2017, con lo sversamento di 400 tonnellate di greggio in falda, prima negato poi ammesso da Eni;
* le due sentenze di condanna per violazione delle norme ambientali per i due pozzi Pergola 1 e Sant’Elia-Cerro Falcone.
Unendo i puntini di questi avvenimenti emerge un quadro a tinte fosche al cui centro campeggia l’immagine di un’impresa che sta conquistandosi come marchio di fabbrica il ricorso costante a condotte poco trasparenti e affidabili. Un quadro in cui stupisce ancora di più l’atteggiamento di Eni che, pur essendo parte della Commissione VIS, appena emersi i risultati li ha sostanzialmente disconosciuti, passando nuovamente e pericolosamente dal ruolo del controllato a quello del censore”. Quello che emerge dai risultati della VIS è un quadro di particolare allarme in quanto l’attività estrattiva, per come è stata svolta in questi anni, ha nei fatti determinato modificazioni ambientali di tale portata da aver danneggiato la salute dei cittadini della Val D’Agri, lavoratori compresi.
Per provare quanto le trivellazioni di alcune aziende petrolifere danneggino il territorio, molti agricoltori della Val d’Agri hanno ospitato le telecamere di trasmissioni nazionali d’inchiesta molto seguite per denunciare ciò che sta accadendo. Tra questi importante è stato il contributo dell’intervista fatta ad Antonio (proprietario di un’azienda agricola che sorge a pochi metri da un pozzo di petrolio) dalle telecamere di “Nemo” il programma di Rai 2 condotto da Enrico Luccie e Valentina Petriniche che “indaga la realtà attraverso le storie, mettendo i protagonisti al centro del racconto, senza mediazioni”. Le immagini, messe a disposizione dall’agricoltore, mostrano molte delle sue pecore in condizioni davvero devastanti: gravemente deformate o, addirittura, decedute in modo assolutamente disumano. L’agricoltore lucano, ha fatto analizzare in assoluta autonomia anche il latte, ottenendo la certezza della contaminazione. Tuttavia, le analisi microbiologiche effettuate sui suoi capi ovini hanno dimostrato solo che i decessi derivano da malattie infettive, ma non la veridicità delle sue convinzioni: morte per avvelenamento causato dall’inquinamento circostante.
Che i Lucani sono contrari alle estrazioni petrolifere in Basilicata è il segnale chiaro che emerge dalle oltre 7000 firme raccolte dall’Associazione Antinucleare ScanZiamo le Scorie. Donato Nardiello Presidente dell’Associazione ha dichiarato: “I Lucani sono consapevoli ormai che il petrolio genera solo “sviluppo distorto” senza creare ricchezza per le imprese locali. Sono coscienti che le compagnie petrolifere stanno utilizzando la nostra terra solamente per fare profitti. Sfruttano il capitale naturale della Basilicata, compromettono l’utilizzo dell’acqua e di altre preziose risorse del territorio, fondamentali per tutelare la salute, l’ambiente e per sostenere la crescita e il progresso dell’economie locali del settore turistico, e agricolo e culturale”.
Un ultimo aspetto da non trascurare è il rapporto che intercorre tra estrazioni petrolifere e terremoti. Alla luce degli ultimi avvenimenti sismici che hanno devastato il Centro Italia, in Basilicata si teme per gli effetti sul territorio dovuti alle estrazioni petrolifere. Due anni fa
Repubblica pubblicò un articolo inerente all’aumento delle scosse di terremoto a Cushing, in Oklahoma (USA), uno dei crocevia mondiali del petrolio. Come si legge nel report firmato dalla giornalista Elena Dusi: “Da Cushing sono partiti 58,5 milioni di barili di greggio dall’inizio dell’anno. Ma oggi la cittadina è a pezzi. Un terremoto di magnitudo 5.0 ha distrutto una cinquantina di case e mandato all’ospedale 150 persone. E’ la terza volta che accade dall’inizio dell’anno”. Queste notizie dovrebbero indurci alla riflessione soprattutto nel leggere la parte finale dell’articolo che menziona la nostra regione: “Di terremoti “indotti” dalle attività di sfruttamento degli idrocarburi esistono indizi in Usa, Canada, Uzbekistan (un magnitudo 7.0, forse, nel 1984). E anche in Italia. Per il sisma del 2012 in Emilia fu per un attimo sospettato il giacimento di Cavone. Ma le sue dimensioni ridotte, la distanza dall’ipocentro e recenti studi sismologici e geologici hanno escluso un legame. Osservata speciale resta invece la Val d’Agri, dove l’estrazione di idrocarburi e la presenza di un lago artificiale sono chiaramente legati a una serie di sismi che hanno raggiunto la magnitudo massima di 2.7 (appena percepibili dall’uomo)”.
Luigi Improta dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ha spiegato: “Le iniezioni d’acque reflue nel pozzo dell’Eni di Costa Molina 2 iniziarono nel giugno del 2006. Immediatamente, nel giro di poche ore, le stazioni sismiche dell’INGV registrarono uno sciame di microterremoti con magnitudo massima di 1.8”.
Tra fiammate anomale, sversamenti e inquinamento i lucani continuano a soffrire di “dissoccupazione”, ad ammalarsi di “tumore” e a pagare il carburante più delle altre regioni. Speriamo che la Basilicata non faccia la stessa fine di Cushing altrimenti dovremmo cambiare la cartina geografica dell’Italia che resterebbe con 19 regioni ed un grande buco all’altezza della caviglia dello stivale.
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