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Un paese tradito dalla sua montagna: Farindola e la tragedia dell’Hotel Rigopiano

Un paese tradito dalla sua montagna: Farindola e la tragedia dell’Hotel Rigopiano

di Gianluca Ciuffi

Il 18 gennaio del 2017 una valanga di neve di enormi proporzioni si abbatteva nella conca carsica di Rigopiano, investendo nella sua corsa incontrollabile un albergo e uccidendo 29 persone tra ospiti e personale. A quasi due anni dal tragico accaduto proviamo ad andare più a fondo rispetto alla troppa informazione superficiale sopravvenutaci durante tutto questo tempo.

La storia dell’hotel Rigopiano segue le vicende storiche ed economiche di Farindola. Venne realizzato agli inizi degli anni ’50 sull’area in cui già nel 1936, a poca distanza, era stato inaugurato il rifugio “Tito Acerbo”. Entrambi costruiti sulle rovine della chiesa alto-medievale e medievale benedettina di Santa Cecilia con annessi convento e foresteria, dipendente, nel IX sec. d.c. dall’Abbazia di Montecassino. Lo stesso complesso benedettino risulta costruito su un preesistente luogo di culto antico italico-romano (Carta Archeologica della Provincia di Pescara redatta dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici per l’Abruzzo) e svolgeva funzioni di punto di sosta e ristoro. L’iniziativa di un ex forestale di costruirvi un rifugio montano non fu quindi casuale: era ritenuto un luogo sicuro. Di proprietà comunale, era stato gestito per un breve periodo dalla Sezione del Club Alpino Italiano di Pescara. Riconsegnato al Comune di Farindola, questi nel 1968 con un atto amministrativo lo cedette ad un privato con il fine (è scritto sull’atto) che vi si realizzasse un albergo per incentivare il turismo montano. Di lì a pochi anni così avvenne. La porzione storica del rifugio fu inglobato dalla nuova struttura e fino alla fine ne è stato il simbolo della continuità. Con le successive modifiche è rimasto sempre lì, ben riconoscibile nel suo iniziale look post ventennio. Era l’ala del bar, degli uffici e sul lato “N” vi era posizionato il grande camino e la sala biliardo: ha rappresentato la salvezza per nove degli undici superstiti della valanga.

Sul finire degli anni ‘60 e la prima metà degli anni ’70 anche Rigopiano venne interessato dai progetti di lottizzazione edilizia in quota approvati dalla Regione Abruzzo, destino comune ad altre località dell’appennino centro-meridionale la cui finalità non sempre è stata suffragata dallo sbandierato sviluppo economico. Roccaraso, Prati di Tivo, Passolanciano, Pizzoferrato sull’Appennino abruzzese, Marsia e Campo Staffi sui Simbruini, Campitello Matese in Molise ed altre località diventarono luoghi di conquista, scempio e cementificazione ben lontani dagli intendimenti iniziali. Non fu così a Rigopiano dove i pastori ed i boscaioli spalleggiati dagli ambientalisti del CAI, si opposero al nuovo modello di sviluppo e al disegno speculativo avviando una storia ambientale che ancora oggi Farindola porta avanti e rivendica orgogliosamente. L’albergo rimase aperto a intermittenza fino agli inizi degli anni ‘90, quando l’anziano proprietario senza discendenti diretti lo lasciò al suo destino. Su sollecitazione dell’Amministrazione Comunale, nel 2006, gli eredi ascendenti e in particolare Roberto Del Rosso, presero a cuore le sorti del luogo, tornando ad investire e ridare nuova vita e dignità all’albergo che ha rappresentato fino al giorno della catastrofe un luogo d’elezione e di eccellenza per l’Abruzzo intero.

La memoria storica raccontata oralmente dai nostri montanari attraverso le generazioni non ricorda di eventi a questo assimilabile come d’altronde i segni sul territorio non hanno fatto mai presagire giacchè il suo decorso si presentava integro e allo stesso tempo occupato da una faggeta secolare con gli ultimi 400 m. soprastanti l’albergo, che comprendevano il grande parcheggio, il campeggio e l’area occupata da un chiosco estivo, evidenziava faggi databili 200/300 anni. Il fatto che l’albergo e il vicino rifugio “Tito Acerbo”, distanti tra loro un centinaio di metri, fossero localizzati sui resti di un sito benedettino e ancor più l’assenza di documenti legislativi regionali basato su presupposti scientifici comprovanti il rischio valanghivo hanno fatto credere, erroneamente, che tale rischio non ci fosse. Così Rigopiano, nel tempo terra di pastori, boscaioli e viandanti, ora luogo della wildrness, di amenità e di turismo balzava improvvisamente alla cronaca per un evento tanto vasto quanto tragico.

Era tarda primavera e avevo appena compiuto sei anni quando sono salito per la prima volta a Rigopiano. Ero con la nonna paterna, al seguito degli armenti al pascolo nella tradizionale transumanza verticale tipica dei pastori locali che spostavano, tra metà maggio ed i primi freddi di ottobre le greggi in un andirivieni dalla mattina alla sera. Un dislivello giornaliero tra i 600 m. e fino a 1.000 m. in salita e altrettanti in discesa con l’obbiettivo di raggiungere le praterie altitudinali e trovare col passare della stagione calda pascoli sempre freschi e genuini. Era il periodo in cui le famiglie, riunivano nella “morra” i pochi capi di proprietà a formare un gregge più grande per seguirlo a turnazione e la pecora “Pagliarola” tipica del luogo era utilizzata per il fabbisogno familiare e quindi per la produzione mista di latte, carne e lana e il formaggio noto già all’antico popolo dei Vestini e decantato da Marziale e Plinio il Vecchio non era ancora conosciuto in tutto il mondo per la tipicità produttiva e le sue proprietà organoelettiche con il nome di “Pecorino di Farindola”, racconta un pastore del luogo.

Erano anche gli anni del boom economico, in verità avvertito più a Rigopiano che non nelle nostre case, perché meta di scampagnate estive (il turismo mordi e fuggi), soprattutto per i cittadini dei paesi più a valle verso la costa. Per me l’occasione di conoscere, gli angoli più remoti della montagna che sovrasta Farindola fino alle cime più alte dei monti Guardiola (m. 1816), San Vito (m.1.892) e Siella (m.2.027). Rigopiano è stato snodo e crocevia per quanti si spostavano dall’area Vestina adriatica verso l’area Vestina transmontana e viceversa in quanto il valico di Vado di Siella posto a circa 1.700 m. di quota era posto privilegiato, in epoca più remota, per il passaggio degli uomini e delle mercanzie di ogni tipo o per gli eserciti che si combattevano tra loro il predominio della zona: a testimonianza di ciò, una inumerevole serie di emergenze storiche poste sulle cime di ogni contrafforte ed i resti della dogana medievale ancora oggi ben evidenti al valico”. Continua ancora:

Come una bretella di raccordo alla mulattiera medievale di Fonte dei Trocchi, sale dai “Confini” di Rigopiano a zig zag nella faggeta di Costa Mercante (sentiero CAI n° 251), per lo più utilizzata dai “maiolicari” di Castelli, oggi confine geografico tra le province di Teramo e Pescara, taglia in traverso a quota 1.600 circa il ripido pendio del “Malepasso”, limite naturale tra la faggeta e le praterie superiori proprio dove il versante E del Monte Siella precipita nella Grava dei Bruciati. Questo è inequivocabilmente un versante valanghivo che ne sconsiglia, oggi come allora, l’utilizzo invernale. Da questo versante nel corso degli anni abbiamo assistito a scariche leggere non appena era accentuata la coltre di neve in quota dovuto essenzialmente al pendio ripido che non permette il formarsi di masse nevose imponenti: al momento del distacco, queste andavano puntualmente ad infrangersi al limite superiore del bosco.”

E’ stato così per decenni, per secoli, forse per millenni, fino al pomeriggio del 18 gennaio del 2017 quando una serie di eventi atmosferici collimanti tra loro a partire dal 6 gennaio, hanno visto la montagna investita da nevicate, innalzamento e abbassamento repentino delle temperature e vento sostenuto in quota da settentrione che ha contribuito a spostare masse considerevoli di neve dentro tutti i canaloni. Su questa situazione si è abbattuta l’imponente nevicata (una vera e propria bomba-neve) cominciata a partire dal tardo pomeriggio di domenica 15 che si è protratta per ben quattro giorni che ha creato la condizione inaspettata, ideale per la tragedia che si è consumata. Molto si discute sul come le quattro forti scosse telluriche in rapida sequenza che hanno interessato l’Abruzzo nella giornata del 18 hanno contribuito a rompere il già precario equilibrio della massa nevosa che non poteva essere legata al cotico erboso ghiacciato. A questo dovrà dare risposta l’opera degli esperti che dovranno altresì chiarire altri due fattori rilevanti: 1) se i lavori di sbancamento per la realizzazione dell’allora (metà anni 70) contestata pedemontana Rigopiano-Castelli abbia influito sul suo percorso terminale. 2) se i carotaggi di terreno nell’area dell’albergo dimostreranno la sussistenza o meno di pregresse antiche valanghe. Quesiti di valore storico ma anche e soprattutto oggi di rilevanza giudiziaria. Certo è che in quei giorni tutti i versanti dei gruppi montuosi dell’Appennino Abruzzese hanno scaricato neve a valle ed è lecito pensare che è in questo contesto combinato di eccezionalità di eventi che hanno coinvolto l’Abruzzo montano che va ricondotto in primis la tragica vicenda dell’hotel Rigopiano. Le linee di frattura del movimento valanghivo erano poste ai 1.900/1.950 m. delle roccette dell’anticima del Monte Siella; la massa nevosa che si è progressivamente ampliata fino a formare un fronte di 300 m. circa ha preso sempre più forza sul ripido versante per precipitare e poi incunearsi a forte velocità nella stretta grava sottostante a forma di esse e senza trovare ormai possibilità di opposizione nella faggeta ha raggiunto la vallata di Rigopiano, danneggiato parzialmente le strutture del campeggio e poi impattato e distrutto l’albergo posizionato alla fine del margine sinistro della conoide. Il corpo valanghivo che ha colpito a velocità supersonica l’albergo era costituito da neve pesante di tipica formazione primaverile e da tronchi e rocce con cui si è autoalimentata lungo il percorso. E’ proprio nella grava, incuneata tra le strette pareti di rocce, che ha difatti acquistato energia, forza e velocità.

Al contrario di quanto visibile nei giorni successivi la tragedia dove il bianco della nevicata ammantava e nascondeva il tutto e l’occhio veniva rapito dalla devastazione e spettralità del luogo, la ricognizione diretta sul terreno ha permesso di evidenziare come l’andamento della valanga all’interno del canalone non sia stato coerente con lo stesso ma intrapreso a causa delle forze prodotte dall’imponente massa un percorso anomalo che presumibilmente ha deviato la sua corsa fatale verso l’albergo. La massa nevosa che si è staccata dal versante “E” e poi precipitata nella grava sottostante non si è incanalata in modo diretto nel canalone ma ha cozzato inizialmente contro il bastione roccioso denominato “Pontone Alto” posto alla sx orografica. L’urto gli ha imposto una deviazione netta sul versante opposto che l’ha costretta nella sua corsa a disegnare un percorso ad arco fino a quando non riuscendo più a risalire per l’asperità del terreno, si è riversata all’interno del canalone ma quando la sua direzione finale era ormai ben segnata.

Se la dinamica dell’evento catastrofico è di facile lettura, non lo è il ventaglio delle responsabilità da ricercare e che la magistratura si troverà ad addebitare: l’eccezionalità, le variabili e le anomalie poste dalla natura non cancellano le inadempienze, le omissioni e gli errori che partono da lontano per finire a ridosso dei giorni e delle ore precedenti l’evento che sono di natura politica, burocratica, preventiva, organizzativa, operativa. La doverosa ricerca di queste porteranno ad un processo lungo e difficile per le parti in causa, che vivrà sull’emotività e sul dolore non ancora leniti dal tempo.

Tralasciando quanto sopra a chi di competenza, personalmente, quello che mi preme in questo contesto mettere in evidenza, è la semplicistica tendenza a pensare che l’Abruzzo sia una regione di mare dimenticando che la maggior parte del suo territorio è prettamente montano. Che su questo vi sono cime che sfiorano i tremila m. di quota e che queste sono poste a 25/30 km di distanza dal mare: il mare e le alte montagne incidono e influenzano fortemente, nel bene e nel male, la meteorologia delle zone interne. Con una popolazione ed una certa politica regionale, che ha rapidamente dimenticato le origini e le peculiarità delle aree montane e pedemontane, prevalentemente a vocazione agricola e silvo-pastorale, che nel corso degli anni sono diventati dei territori di frontiera, e con la popolazione resiliente incapace, senza il necessario bagaglio di conoscenze, di reinventarsi ed avviarsi rapidamente verso nuovi tipi di economia. Con lo spopolamento dei paesi e l’abbandono delle attività umane è venuta meno la cultura di montagna e la conoscenza dei rischi insiti in essa. Soprattutto è venuta meno l’attenzione e la prevenzione necessaria per far fronte e seguito ai diversi e differenti modi di frequentarla, per così favorire più rapidamente le economie legate al turismo montano. Completamente trascurate e disattese le nuove tecnologie e le conoscenze per concepire una efficace “messa in sicurezza” moderna ed innovativa del territorio. Se a questo aggiungiamo le continue “revisioni di spese” portate avanti dai nostri politici con i tagli alla spesa pubblica, è facile capire dove queste sono andate ad incidere: un territorio sempre più abbandonato al suo destino.

Il tema della gestione delle informazioni è stata la nota dolente dell’evento che ha calamitato un numero esorbitante di operatori, intenti, tramite i vari canali a loro disposizione, a far girare la macchina delle notizie senza preoccuparsi minimamente della veridicità o fondatezza delle stesse. Sulle varie TV si è replicato il valzer dei processi mediatici, tesi a creare audience ed aspettative immediate, dimenticando e disattendendo i fondamenti storici e la realtà locale. Una specie di gara per costruire ipotesi, dove non solo è mancata la necessaria conoscenza della natura geomorfologica, sismica e carsica dell’area ma anche sottaciuta l’evidenza delle peculiarità ed i valori ambientali espressi dal territorio. Solo i pochissimi profondi conoscitori dei luoghi e della storia recente di Farindola, hanno sentito l’obbligo di riportare l’attenzione ed i meriti per un paese dove già mezzo secolo fa uno dei primi gruppi ecologisti abruzzesi, aveva dato inizio alle prime battaglie ambientaliste ed avviato un difficile percorso di crescita sociale ed economica basata sulla sostenibilità ambientale lanciando nel corso degli anni successivi progetti importati e ambiziosi che hanno portato il paese al centro della ribalta nazionale e che ancora oggi continua a guardare alla salvaguardia ed al recupero del territorio nel tentativo ultimo di trattenere l’identità locale a dispetto di una classe politica sempre più lontana dall’essere attenta alle esigenze dei territori montani.

Il dramma dell’hotel Rigopiano fa il paio con altri (drammi) perpetratisi nell’Italia di oggi, incapace di percepire come l’emergenza climatica sempre più evidente mette a rischio decenni di urbanistica incontrollata e/o aree un tempo ritenute sicure, che impone con urgenza e saggezza scelte coraggiose e non più rinviabili per far fronte ad eventi atmosferici catastrofici per la popolazione. I morti ed i sopravvissuti di Rigopiano (ma non solo) lo impongono categoricamente.

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