
La plastica sta soffocando il mare. Il progetto di Cleanup propone una soluzione utilizzando le correnti.

di Melissa Marchi
L’emergenza ambientale a cui il pianeta sta andando incontro e che da vari decenni è al centro delle campagne di sensibilizzazione delle varie onlus e organizzazioni ambientaliste, fino ad oggi non ha suscitato soluzioni concrete e definitive. Le politiche ambientali adottate dai vari Stati, predisposte tramite i meeting internazionali, primo tra tutti il protocollo di Kyoto del 1997, non hanno concretamente ridotto né le emissioni di Co2 nell’aria né l’inquinamento delle acque. Alcuni risultati sono parzialmente visibili ma, la mancata adesione di paesi come gli USA, che producono emissioni per circa il 36 % del totale mondiale, rendono le misure e i convegni mondiali inefficaci. È evidente perciò come la politica si sia dimostrata inadatta o per lo meno troppo lenta nel contrastare questo fenomeno che avanza inesorabile ogni anno. Tuttavia alcune alternative al problema e possibili soluzioni sono state intraprese da enti autonomi, sovranazionali e in alcuni casi frutto di investimenti di aziende private. Questi investimenti in particolar modo si sono concentrati sulla riduzione della quantità di plastica, materiale molto utilizzato nelle società moderne e che, senza una dovuta regolamentazione, è difficilmente smaltibile. I nuovi investimenti si muovono verso la ricerca di nuovi materiali alternativi ma il problema dello smaltimento della plastica prodotta e fino a oggi non riciclata resta un grande interrogativo e problema per la situazione ambientale in particolare degli oceani. Il problema è stato evidenziato con particolare enfasi dalla Ocean Cleanup Foundation. Quest’associazione, fondata su progetto dell’olandese Boyan Slat, è stata una delle prime a mettere in evidenza le disastrose condizioni degli oceani, ormai invasi da residui di plastica di ogni dimensione. La situazione più disastrosa è stata individuata nella porzione di oceano tra le isole Hawaii e la California, denominata dagli stessi Great Pacific Garbage Patch. In questo tratto infatti, per mezzo delle correnti convergenti dai vari mari si sarebbe formata un’isola vera e propria di rifiuti di plastica che se non rimossi tempestivamente può portare alla sgretolazione di questi in microrifiuti rendendo quasi impossibili contenerli per poi successivamente smaltirli. In seguito alla scoperta Julia Reisser, membro di OceanCleanup, ha sostenuto: “Eravamo sorpresi dalla quantità di oggetti di plastica di grandi dimensioni che abbiamo trovato. Pensavamo che la maggior parte dei detriti fosse costituita da piccoli frammenti, ma questa nuova analisi fa luce sulla portata dei detriti”.

Dall’osservazione di questo fenomeno ha avuto origine il progetto: sfruttare lo stesso meccanismo delle correnti che trascinano e accumulano i rifiuti in uno specifico luogo per creare uno strumento che usi le onde come forza motrice per raccogliere la plastica dispersa nell’oceano.
In questo modo, secondo i pronostici dell’equipe di ingegneri che hanno seguito il progetto e la realizzazione di System 001, il primo prototipo che la fondazione ha presentato nel 2016, la quantità di plastica nella Great Pacific Garbage Patch sarebbe stata ridotta del 50% entro la fine del 2018 e quasi estinta nel 2020. Un valore aggiunto del progetto è la sua realizzazione in una modalità 100% sostenibile. Nell’azione di raccolta infatti verrà sfruttata la potenza delle onde e tutti i dispositivi elettronici usati sono alimentati con energia solare e quindi utilizzando solamente energie rinnovabili. Se il progetto da 20 milioni di dollari della Ocean Cleanup darà i suoi risultati e le supposizioni risulteranno esatte, le stime prevedono un netto miglioramento delle condizioni degli Oceani fino, come visibile nel grafico seguente, alla totale sparizione delle microplastiche nel 2050.

C’è chi, tuttavia, ha espresso perplessità rilevanti sul costoso progetto della fondazione olandese. Infatti, dopo l’attivazione, avvenuta ad Ottobre del 2018, i risultati attesi ancora non sono quelli previsti. Il Guardian a proposito insinua che il dispositivo non sia stato dovutamente testato prima del suo utilizzo. A queste critiche, la Fondazione, tramite il suo iniziatore Slat, ha risposto che “era naturale trovare delle difficoltà iniziali data la complessità dell’operazione ma queste verranno risolte perfezionando il dispositivo durante il suo utilizzo”
First plastic pic.twitter.com/53nSlLSytf— Boyan Slat (@BoyanSlat) October 24, 2018
Non ci rimane che attendere e scoprire se le modifiche promesse saranno efficaci e sperare che, la più ambiziosa delle imprese di pulizia e riciclo di rifiuti mai ideata, possa davvero raggiungere gli obiettivi preposti ed essere un esempio per i futuri SDGs.
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