
Dalla scoperta della Pacific Garbage Patch ai DPI: perché la plastica nei mari è ancora un problema

di Angelo Baldini
Nel racconto mediatico degli ultimi venti anni, la Pacific Garbage Patch è diventata il simbolo degli effetti dell’inquinamento e dello sconsiderato sversamento di rifiuti plastici nei mari. Situata nel lembo di Oceano Pacifico tra la California e l’arcipelago hawaiano, la chiazza di rifiuti fu portata all’attenzione dell’opinione pubblica dall’oceanografo Charles J. Moore che si imbatté in essa nell’agosto del 1997, durante una gara di navigazione con il suo catamarano. Erroneamente conosciuta come isola o continente di plastica, la chiazza non ha una consistenza solida, Moore per descriverla utilizzò infatti il termine “soup”: una zuppa densa e viscosa di plastiche sciolte dagli agenti atmosferici e dall’azione delle maree.
L’attenzione verso di essa è recentemente rinata grazie ad una più consapevole coscienza ambientale ma anche per la celebrità del progetto del giovane inventore olandese Boyan Slat: Ocean Cleanup, un’enorme rete galleggiante costruita per ripulire dalla plastica proprio quel tratto di Oceano Pacifico. L’invenzione non ha per ora conseguito risultati degni di nota ed è anche stata oggetto di critiche da diversi studiosi circa la sua efficacia. Di dubbia riuscita, soprattutto se rapportata alle cifre milionarie che ha richiesto.
Le altre chiazze di rifiuti negli oceani
La Pacific Garbage Patch non è comunque l’unica chiazza di rifiuti, ne esistono infatti altre quattro di quelle dimensioni. In tutto ce ne sono due nell’Oceano Pacifico, due nell’Oceano Atlantico e una nell’Oceano Indiano. Esse sono state censite grazie al lavoro dell’oceanografo Curtis Ebbesmayer e dell’informatico James Ingraham che, grazie all’utilizzo di paperelle di gomma, costruirono un modello matematico delle correnti oceaniche. Le cinque chiazze si trovano infatti in coincidenza dei cinque gyres, i cinque maggiori sistemi di correnti oceaniche. Il problema, in ogni caso, non è relegato soltanto alle correnti oceaniche, ma si ripercuote anche a livello marittimo locale (il nostro Mediterraneo non ne è esente, anzi) e fluviale.
È un problema di enormi dimensioni quello della plastica, un materiale che, come attesta la Chemistry Council, detiene il primato di materiale più prodotto al mondo dal 1973. Secondo i rapporti di Plastic Europe, la produzione mondiale di plastica è infatti passata dalle 51 milioni di tonnellate del 1964 alle 359 milioni di tonnellate del 2018.
Ma quali sono davvero le conseguenze della presenza della plastica in mare?
Innanzitutto, quello della plastica in mare è un problema di ordine di grandezza micro e nanoscopico, non macroscopico. Motivo per cui, Marcus Eriksen, fondatore e direttore del 5 Gyres Institute, ha criticato l’invenzione di Boyan Slat che può trattenere frammenti fino a un millimetro di grandezza.
Degradandosi, la plastica si decompone in detriti sempre più piccoli, fino a raggiungere l’ordine di grandezza delle molecole. Queste particelle restano però dei composti sintetici dunque nocivi ed inquinanti, e vengono poi assorbiti dal fitoplancton e dallo zooplancton, organismi alla base della catena alimentare oceanica. I primi sono inoltre degli organismi autotrofi fotosintetizzanti responsabili di metà della produzione di ossigeno del pianeta.
Assorbendo questi piccolissimi frammenti, il plancton genera processi di biomagnificazione e di eutrofizzazione degli oceani. Due effetti che intaccano l’intero ecosistema del pianeta e quindi, seppur non direttamente, coinvolge anche noi intesi come umanità.
Il primo è l’accumulo di sostanze nocive a mano a mano che si sale nelle gerarchie della catena alimentare. Il plancton che assorbe particelle di plastica viene ingerito dalle creature marine che a loro volta vengono ingerite da altre creature marine ancora. Poi, come si può ben immaginare, molte di queste creature finiscono sulle nostre tavole. Ad oggi, si contano più di 300 specie animali colpite da problemi causati da ingestione da plastica: avvelenamento, soffocamento, alterazione della galleggiabilità e sensazione di finta sazietà che porta i pesci a morire denutriti.
Il secondo processo è invece l’eutrofizzazione. Oltre ad avvelenare di per sé il plancton, la plastica ha una grande capacità di trattenere le sostanze tossiche presenti nell’acqua. Alcune di esse come azoto, fosforo e zolfo presenti nei detersivi, nei fertilizzanti e nelle acque reflue domestiche e industriali, costituiscono un nutrimento alterante e ‘dopante’ per il fitoplancton e le alghe, e le porta a crescere a dismisura. Con questa crescita sproporzionata, essi determinano una maggiore attività batterica con conseguente consumo sregolato di ossigeno che nuoce a tante specie di pesci.