
L’ESPERIENZA DI VOLONTARIO IN SIERRA LEONE. matteo Cavicchini: «Io, al servizio dei più deboli»

di Lorenza Carra
Matteo Cavicchini, classe 1979, ha vissuto un’indimenticabile esperienza da volontario in terra africana. Dopo alcuni anni da operaio e da volontariato in Croce Rossa, dal 2000 è autista soccorritore 118 presso la Cooperativa Soccorso Azzurro. Grazie alla crescita professionale acquisita negli anni e agli studi fatti, quali il conseguimento di un diploma in “Dirigente di Comunità”, un diploma da massoterapista e uno di Operatore Socio-Sanitario, nel 2018 ha vissuto una splendida avventura come volontario in Sierra Leone, ospite di una congregazione di Suore Missionarie.
Matteo, perché un’esperienza del genere? L’Africa non è meglio viverla da turista?
«Certo che come turista potrebbe essere la cosa migliore ma io, a casa, con il mio lavoro, non faccio altro che dedicarmi agli altri. Quindi, ho pensato, “perché non farlo, anche se per un breve periodo, in un posto dove effettivamente c’è bisogno di aiuto?” Un aiuto fisico, un aiuto materiale e non fatto solo di parole. Da qui la scelta di vivere una esperienza fuori dai nostri confini».
Come è nato il tuo progetto per la Sierra Leone?
«La casualità ha voluto che, chiacchierando una sera con un infermiere del pronto soccorso cittadino, abbiamo toccato l’argomento Africa. È stato proprio lui a farmi conoscere l’Associazione emiliana “SUD CHIAMA NORD” con cui collabora da tempo. Un gruppo di fantastiche persone, giovani e con tanta voglia di fare. Dedicandosi agli altri, operano ormai da anni all’interno della Sierra Leone. I volontari partecipano ad attività di organizzazione, insegnamento ed intrattenimento con fini educativi presso una grande struttura scolastica. Oppure, per chi si occupa di attività sanitarie, in una clinica lontana dai grossi centri abitati. Tutte queste strutture sono gestite dalle Suore Clarisse SS. Sacramento, che da anni operano sull’intero territorio nazionale. La clinica dove ho soggiornato e lavorato si trova precisamente nel villaggio Miles 91. Chiamato così perché si trova appunto a 91 miglia di distanza dalla capitale Free Town. E in una nazione dove spostarsi non è particolarmente facile e agevole, immaginate il disagio di chiunque viva o operi in Sierra Leone. Erano ormai tantissimi anni che nutrivo il desiderio di vivere un’esperienza del genere. E finalmente ci sono riuscito».
Ci racconti questa tua esperienza?
«Le difficoltà non sono state poche, a partire dalla lingua. Ma con un po’ di inglese maccheronico e tanta, tanta volontà me la sono cavata al meglio. Ero stato assegnato alla clinica dove mi sono occupato dell’accoglienza dei pazienti, effettuavo analisi del sangue, facevo medicazioni e vari piccoli interventi. Ho fatto l’ostetrico (il tutto non allo sbaraglio, ma con nozioni che, anche se di base, fanno parte del mio bagaglio personale), l’intrattenitore per i piccoli pazienti e, in caso di bisogno, anche il manutentore. La regola è una sola: mettersi a piena disposizione ed aiutarli in tutte le loro necessità. Le giornate avevano un inizio ma non una fine. È vero che la clinica aveva orari, ma tante volte abbiamo proseguito ad oltranza. Specie quando a presentarsi a chiedere sostegno erano partorienti, che chiaramente non potevano decidere quando mettere alla luce la propria creatura. Si iniziava alle 7 con il triage. Un’infermiera del posto, con il supporto e l’insegnamento di Giacomo (l’infermiere che ha prestato servizio nel mio stesso periodo) registravano i pazienti che già dalle prime ore del mattino si presentavano all’ingresso. Una prima valutazione e poi in coda per essere visitati dalla mitica e instancabile Sister Patty, suora e medico della struttura. Effettuata la visita, i pazienti arrivavano da me e Anna, un’infermiera locale, per le analisi. Sei, sette ore di prelievi, con test HIV, tifo, epatite, malaria…come se non ci fosse un domani. A volte con risultati buoni e a volte con sentenze infauste. Specie quando a risultare infetti erano bimbi ai primi anni di vita. Purtroppo, la mortalità infantile rappresenta una percentuale ancora alta dei decessi locali. Tra un esame e l’altro si correva per una medicazione, quando finita si passava a somministrare una terapia. Poi si andava ad aiutare la Sister nella gestione di una visita. Insomma, una corsa continua! Meno male però che nella routine lavorativa c’erano anche piccoli momenti di relax. Il tempo per una battuta, uno scherzo e un sorriso tra operatori e pazienti, rientrava nella quotidianità. Quest’ultima situazione, ovvero il vedere la gente sorridere, è tra quelle che durante il mio soggiorno mi hanno sorpreso di più. Nella loro povertà, vista dai nostri occhi e vissuta di persona, quello che stupisce è che nonostante le loro difficoltà ho sempre visto gente allegra. È vero che in molti casi il malessere fisico la faceva da padrona, ma il modo con cui affrontano la situazione è meraviglioso. Spesso mi chiedevo: “ma sono sempre contenti?” E la risposta era evidente: sì. Quelli sono e quello hanno. La loro semplicità è la loro ricchezza più grande. A volte anche più della salute stessa. Questa è una delle caratteristiche che più mi ha affascinato del loro modo di affrontare la vita».
Cosa ti ha colpito maggiormente?
«Tra le attività in clinica che mi ha entusiasmato maggiormente, è stato assistere le partorienti. Nel mio lavoro qui a casa mi capita alcune volte di assistere ad un parto, durante uno dei tanti interventi fatti in ambulanza. Ma l’emozione non è stata la stessa. Qui abbiamo tutto per assistere al meglio la partoriente e la sua creatura. Laggiù, nella clinica, invece si ha solo l’indispensabile. Se devo essere sincero il primo parto è stato un po’traumatico per me, anche perché in fin dei conti nella vita sono solo un autista soccorritore. Là invece accompagnavo le giovani mamme e tutto il loro entourage nell’intero percorso: dai primi dolori fino alla nascita. Tenevo monitorati la pressione, il battito del feto, le facevo camminare ore e ore per agevolare la rottura delle acque; a volte ore interminabili e a volte pochissimi minuti. Mamme che in preda ai dolori cantavano, pregavano e mi ringraziavano del supporto che le davo. E poi ecco che in un batter d’occhio mi ritrovavo con il bimbo in mano mentre la Sister tagliava il cordone ombelicale. Le prime manovre salva vita e via in braccio alla mamma per il primo contatto e subito la poppata. In tre settimane di soggiorno ho aiutato ed assistito a ben cinque parti per un totale di sei bambini: perché non mi sono fatto mancare proprio niente, nemmeno i gemelli! I giorni successivi, quando le neomamme venivano in clinica per ricevere le indicazioni del caso e per medicare i cordoni ombelicali dei bimbi, mi venivano espressamente a cercare. Mi venivano incontro affidandomi quel loro piccolo esserino come se fossimo amici da una vita. Dimostrazione di fiducia e gratitudine che va oltre ogni previsione. A volte mi portavano anche un piccolo pensiero: chi un braccialetto, chi delle pannocchie cotte su braci a bordo strada per una merenda veloce. E per concludere una foto ricordo con i loro cellulari, per consacrare il momento».
Cosa ti è rimasto nel cuore?
«Alla fine di tutto, dopo aver scaricato l’adrenalina, ecco la lacrimuccia che mi scendeva dal viso. Durante questa mia esperienza ho provato una infinità di situazioni nuove e non mi vergogno a dire che spesso, a fine giornata, nella mia camera, coricato sul mio letto, ho pianto. Pianto per le bellissime emozioni che quasi giornalmente provavo. Mi sono trovato catapultato a migliaia di chilometri a fare cose che mai avrei pensato. Cose che però mi hanno dato enormi soddisfazioni, sperando di essere riuscito a fare tutto al meglio delle mie possibilità. Ma penso d’averlo fatto perché la risposta che ho avuto dalla popolazione del posto non lascia alcun dubbio. Fin dal mio primo giorno nel villaggio, ho provato una sensazione meravigliosa e a parole difficilmente spiegabile. Durante la Santa Messa, dove i colori dei vestiti e le canzoni la facevano da padrona, il sacerdote mi ha nominato e presentato all’interno della Chiesa. Le circa centocinquanta persone presenti si sono alzate e mi hanno applaudito. Io, con il cuore a mille e lacrime di emozione che mi scendevano, mi domandavo come mai tutta questa gratitudine e gentilezza. Ancora non avevo fatto niente! Finita la cerimonia ho passato decine di minuti circondato da persone che si presentavano a me, che mi stringevano la mano, mi chiedevano come stavo e mi ringraziavano. Penso che essere là ad aiutarli ti faccia entrare, quasi di diritto, nel loro cuore. Durante le pause mi piaceva molto uscire dalla clinica e passeggiare in tranquillità per il villaggio: ad ogni angolo qualcuno che mi salutava, bambini che mi correvano incontro per farsi foto con me, gruppi di ragazzi più grandi che mi invitavano a giocare con loro a calcio, oppure gli anziani, seduti davanti a casa, che mi offrivano un mango. Quanti ne ho mangiati per non mancare mai di rispetto alla loro gentilezza… Ho vissuto davvero nello spirito del villaggio, con un grosso senso di apparenza. Se dovessi riassumere in poche parole, direi: esperienza indimenticabile!».