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BOLOGNA CITTÀ D’ACQUA: Una mostra alla riscoperta di una città perduta

BOLOGNA CITTÀ D’ACQUA: Una mostra alla riscoperta di una città perduta

di Massimo Carloni

Non ci crederete, ma Bologna è stata una città d’acqua.

Francesco Guccini negli anni Ottanta cantava Bologna è una ricca signora che fu contadina: benessere, ville, gioielli… e salami in vetrina e uno s’immaginava una città ben radicata nella pianura, ricca di cibo e di denaro, benestante e gaudente, felicemente epicurea o sazia e disperata, come la definì nel 1998 il cardinale Biffi.

Eppure di una Bologna profondamente diversa ci voleva parlare la mostra fotografica Canali nascosti a Bologna nel Novecento, aperta lo scorso 10 ottobre all’Opificio delle Acque alla Grada. Quest’ultimo, costruito alla fine del 1500 presso l’entrata, protetta da una grata (“grada”, in dialetto), del Canale di Reno in città fu dapprima una conceria, poi mulino, infine piccola centrale elettrica. Tra il 2018 e il 2020 è stato restaurato per ospitare la sede del Consorzio Canali di Bologna, il suo archivio storico e un centro documentale e didattico sull’importanza dell’acqua nella storia e nell’economia di Bologna.

La mostra, purtroppo, è stata chiusa quasi subito a causa delle disposizioni anti-CoVid, ma ha prodotto, per fortuna, un bel catalogo, ricco di foto d’epoca, raccolte grazie alla collaborazione della Cineteca di Bologna, che ci permette di rivelare un volto davvero nuovo della città.

In realtà di una Bologna ricca di acque e di canali, di mulini e di opifici, di scorci  insomma più veneziani che padani, ci aveva già parlato una piccola schiera di “giallisti” felsinei, Loriano Macchiavelli, ad esempio,  nei Sotterranei di Bologna del 2002 oppure Alfredo Colitto in Cuore di ferro del 2009. I loro romanzi, che fossero storici o contemporanei, ci descrivevano torrenti sotterranei, canali tombati, lunghe navigazioni di chiatte da Bologna fino alla laguna veneta a rimorchio di stanchi cavalli sulle alzaie.

Ma anche al turista distratto, in rapido transito da Venezia a Firenze, poteva capitare di imbattersi, perdendosi a occidente di via Indipendenza, in una toponomastica evocativa: via del Porto, via della Grada, Giardini del Cavaticcio, via Riva di Reno. Ultimamente poi le guide hanno cominciato a indirizzare le comitive alla Finestrella di via Piella, col suggestivo affaccio su quel poco che rimane in superficie della ragnatela di canali che un tempo attraversava la città.

In realtà l’unico corso d’acqua che da sempre bagna Bologna è il torrente Àposa; ma fin dall’Alto Medioevo fu chiaro che la sua portata irregolare non sarebbe mai riuscita a sostenere  l’attività manifatturiera e i commerci che stavano sempre più segnando il destino economico del centro felsineo.

Così attorno al XII secolo vennero costruiti due canali: il Canale di Savena a est e il Canale di Reno a ovest.

Iniziando da due chiuse, sfruttavano il dislivello cittadino di una quarantina di metri tra i quartieri a monte e quelli a valle, alimentando mulini e opifici.

Le loro acque poi, riunite a quelle dell’Àposa, erano convogliate al Porto Navile, centro nevralgico da cui partivano, grazie all’omonimo canale, le merci che arrivavano a Ferrara da lì a Venezia e all’Adriatico.

Questo equilibrio fra terra e acqua è così durato sostanzialmente per secoli fino al primo Ottocento, ma poi qualcosa si è rotto.

Prima la progressiva crisi dell’industria tessile poi le sempre più precarie condizioni igieniche delle case e dei canali utilizzati come fogne a cielo aperto; e infine l’invenzione della macchina a vapore, destinata a rivoluzionare l’industria manifatturiera e i trasporti con l’invenzione del treno, hanno condotto gli amministratori a ripensare l’impianto urbanistico della città.

Con l’attuale sensibilità nei confronti dell’ambiente e dei beni architettonici è probabile che gran parte degli interventi allora progettati e poi portati a termine anche dalle successive generazioni non sarebbero stati approvati o avrebbero subito radicali mutamenti. Ma l’ideologia del progresso, simboleggiata dall’inaugurazione nel 1859 della stazione ferroviaria, si nutriva anche della voluta cesura con un passato in cui il nostro paese era rimasto in gran parte arretrato rispetto alle avanguardie europee.

E allora il Piano Regolatore del 1889 cominciò a disegnare una città radicalmente diversa dai precedenti decenni. Il piccone demolitore, manovrato da operai disoccupati appositamente ingaggiati, aveva già aperto la direttrice di via Indipendenza tra la stazione e Piazza Maggiore e aggredì poi tra il 1902 e il 1906 le mura cittadine, colpevoli di rendere malsana l’aria di Bologna. Tra feroci polemiche, animate da intellettuali come Carducci, vennero abbattute, seguendo il funesto esempio di tante altre città italiane ed europee e lasciando, a testimonianza della Circla medievale solo alcune porte, completamente isolate dal contesto urbano.

L’enorme massa di detriti servì però a colmare il fossato che circondava la città e che costituiva parte integrante del sistema dei canali. Infatti il leit-motiv che guidò da quel momento in poi le varie amministrazioni fu quello di tombare e di relegare a un semplice sistema fognario i vari corsi d’acqua che attraversavano come una ragnatela la città.

Oggi noi sappiamo che è possibile restituire ai fiumi la loro limpidezza e salubrità con tutta una serie di provvedimenti legislativi e di soluzioni tecniche che evitino, per quanto possibile, di sversare liquidi inquinanti dal punto di vista chimico e batteriologico. Allora, e fino a qualche decennio fa,  si pensò che la copertura dei canali fosse il modo più radicale per bonificare i quartieri malsani, costruire un sistema fognario moderno e allestire veloci assi stradali cittadini per gli autoveicoli privati e pubblici.

Il catalogo della mostra, allora, con dovizia di immagini e con scrupolose ricerche d’archivio, ci documenta l’inesorabile scomparsa delle vie d’acqua bolognesi.

Il torrente Àposa era stato indicato come uno dei principali responsabili delle epidemie di colera del 1855 e del 1865 e così se ne era iniziata la copertura. Nel 1913 ne rimanevano a cielo aperto solo due brevi tratti mentre bisognò aspettare il 1958 per assistere, dove adesso sorge l’Autostazione, costruita un decennio dopo, alla totale copertura del torrente e del suo tributario Canale delle Moline.

Quest’ultimo doveva il suo nome a una quindicina di mulini comunali da grano che dal Medioevo agli inizi dell’Ottocento erano stati attivi. Gli edifici lentamente erano poi stati riconvertiti; l’insalubrità della zona delle attuali via del Pallone e via Alessandrini, che fiancheggiano la Montagnola e Piazza VIII agosto, fece il resto. Dagli anni Venti, per mezzo secolo circa, si succedettero interventi di copertura al fine di adibire il canale a rete fognaria fino a che nel 1974 una controversia tra comune e cittadini su chi dovesse sostenere le spese per gli ultimi lavori in sostanza li rimandò sine die. Grazie a questa vertenza irrisolta dobbiamo il fatto di poter ancora vedere una piccola parte del canale, compreso il famoso affaccio in via Piella.

Ancora più dolorosa fu la vicenda della zona del porto, progettato addirittura dal Vignola a metà del 1500, e quasi del tutto coperto, con la conseguente distruzione di molti edifici circostanti, nel biennio 1934-35. Oggi solo l’edificio della Salara, salvatosi dal piccone e restaurato dal comune, resta a testimonianza della fervida attività commerciale nella zona di Porta Lame.

Infine, ma potremmo continuare a lungo, ci fu la pluridecennale (dal 1928 al 1965) opera di trasformazione della zona del quartiere Saragozza con la progressiva copertura del Canale di Reno non solo nella porzione al di fuori delle vecchie mura, ma soprattutto in quella che attualmente è via Riva di Reno che conserva solo nel nome l’antica funzione di lungofiume.

Certo, visitare la mostra Canali nascosti, appena riaprirà, e ricordare la Bologna città d’acqua che fu non servirà a riportarla in vita, se non attraverso vecchie foto seppiate che conservano il fascino di un tempo ormai irrimediabilmente trascorso. Senz’altro però potrà aiutarci a preservare quanto di bello abbiamo nel nostro patrimonio artistico-ambientale tutte le volte che una malintesa idea di modernità ci vorrà spingere a fare tabula rasa del nostro passato.

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