
Storytelling. Sostenibilità. Ecologia delle parole

di Giorgio Triani
Riparto da dove ero rimasto quasi 10 anni fa. Da un editoriale che vi ripropongo, perché sorprendente e sconcertante nello stesso tempo. Parlavo dell’abuso verbale – che oggi chiamiamo storytelling- di parole come green, sostenibilità, sobrietà, bene comune. Rileggendomi, per caso, scopro che viviamo un’epoca in cui tutto corre velocissimo e nello stesso tempo sembra fermo.
Ci diciamo infatti e ci ridiciamo tante cose che riteniamo necessarie e imminenti, che sembra debbano succedere da un momento all’altro. Ma poi niente. Non accade niente. Anche se è vero che da sempre verba volant, mentre i fatti, la realtà, i cambiamenti reali hanno svolgimenti molto più lenti, accidentati e spesso ostacolati.
Constatiamo infatti che di grande trasformazione, di reset di sistema, di passaggio epocale dalle energie fossili a quelle rinnovabili – con tutto ciò che comporta sui modelli di consumo e di vita quotidiana- si parlò subito e tanto all’indomani della crisi globale del 2008, innescata dal default bancario ed esplosa con il fallimento della Lehman Brothers. Il risultato però è stato il finanziamento pubblico massiccio dei settori dell’auto e del trasporto aereo, che ha significato il veloce rientro alla situazione pre-crisi. Nel contempo però che il discorso pubblico sulla necessità di contrastare il climate change e di investire nell’economia sostenibile è diventato tanto insistito da risultare quasi assordante. Ma con poco esito.
Adesso a pandemia ancora in corso il rischio è lo stesso. Che si parli, auspichi, invochi una radicale cambiamento di sviluppo. Di paradigma. Nel segno della sostenibilità, ovviamente, della green economy, dell’uso e riuso, della mobilità dolce. Però spostando sempre molto avanti il d-day del cambiamento vero.
Non so a voi, ma di fronte al rapido precipitare della situazione – vedasi, per stare a fatti recentissimi: la disastrosa alluvione in Germania e il XVI rapporto sul clima (https://greenreport.it/news/economia-ecologica/clima-litalia-segna-154-c-e-continua-a-surriscaldarsi-piu-velocemente-della-media-globale/) che ha certificato un aumento della temperatura media di 1.54 gradi- io credo sia evidente che rimandare, dilazionare non si può proprio più. Perché se non si inizia subito a invertire con decisione la direzione di marcia al 2030 e men che mai al 2050 – per evocare le due date simbolo alle quali istituzioni e stati si richiamano- non ci arriveremo. O se sì a bordo di una novella “ Arca di Noè”.
Insomma invitandovi alla rilettura, concludo, riaffermando che di storytelling (sulla sostenibilità) rischiamo di morire. Soprattutto se in testa alle best practices – altro anglismo molto di moda- non mettiamo una convinta, essenziale e diffusa “ecologia delle parole”. Che ponga fine alla politica degli annunci ( a futura memoria)
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Sobrietà, sostenibilità, bene comune.
Un’insostenibile abuso verbale
Ecologia delle parole. Che distende un manto verde sul linguaggio quotidiano. Spesso insopportabile, ma talvolta divertente. Come ad esempio quando l’indulgenza a una narratività ispirata dalla green economy producono battute felici. Come il “sobriettino” che pone fine alle cene del premier Monti. Giusto per evocare la parola (sobrio/sobrietà su cui tornerò) che per frequenza d’uso comincia a essere insopportabile. Anzi non più sostenibile. Per arrivare al primo termine, sostenibilità, per il quale andrebbe chiesto – come si invocava anni fa per gli esperimenti nucleari- una moratoria. Per 3 anni nessuno la potrà più usare. Anche perchè, a ben vedere e più seriamente, anziché invocare usi/consumi “sostenibili” avrebbe più senso chiedersi quanta insostenibilità sia ancora tollerabile. Di sostenibile ( si tratti del debito, dell’inquinamento o dello sfruttamento di risorse naturali), infatti, non c’è più nulla. Tutto o quasi è fuori limite o in forte deficit. Dunque perché invocare sostenibilità quando sarebbe più realistico e produttivo chiedersi quanti comportamenti/pratiche dannosi e nocivi per l’ambiente come per le persone e le relazioni sociali, cioè insostenibili, possiamo ulteriormente sopportare. Per non collassare, esplodere, dichiarare default ( altra parola topica). I limiti dello sviluppo ( perlomeno di questo tipo di sviluppo) sono ormai stati ampiamente superati. Talchè anziché continuare a evocarli ( a vuoto) sarebbe di gran lunga meglio capovolgere i termini di confronto e raffronto. Perché assai più dirompente di quanto si possa credere. Dal momento che siamo di fronte a trasformazioni epocali e, come ha scritto Alexander Mitscherlich a proposito dell’inospitalità delle città contemporanee, “ le cose cominciano a cambiare quando si cambia atteggiamento”. Uno smette davvero di fumare, bere o giocare d’azzardo nel momento in cui si convince che vuole. Non che dovrebbe o che sarebbe bene.
Resta da aggiungere che uno dei più stucchevoli usi del concetto di sostenibilità è la moda, diventata mania quasi persecutoria nei confronti del pubblico e dei consumatori, di scrivere ( nel biglietto ferroviario come sullo scontrino di cassa) quanta CO2 si è risparmiata, non andando in macchina o scegliendo una bottiglia di vetro anziché di plastica. Naturalmente non so se sia questo il modo (comunicativo) migliore per incentivare le best practices ( di fatto l’anglismo oggi più gettonato quando si vuole comunicare che si è molto informati sulla materia su cui si sta disquisendo). E’ certo però che il sentimento che attualmente condiziona di più il nostro vocabolario quotidiano è l’afflato ecologico del quale si diceva all’inizio e che emerge anche in parole come tracciabilità o mobilità, che ormai o è dolce o non è. Ma che ha la sua massima espressione nel bene comune : un concetto vaghissmo, ma che dalla vittoria alle scorse amministrative di De Magistris a Napoli e del referendum contro la privatizzazione dell’acqua è ora diventato in molte zone d’Italia nome proprio di liste civiche e apparentamenti di sinistra. Ciò che colpisce però di questo forte richiamo al bene comune, è l’ implicita denuncia che esso contiene nei confronti del deterioramento fortissimo che nell’ultimo ventennio ha subito in Italia tutto ciò che è pubblico, collettivo: diventato, proprio per sfruttamento eccessivo e doloso, scarso e di cattiva qualità ( l’acqua, appunto, ma anche l’aria, il verde, il paesaggio, gli spazi urbani).
Si può però osservare come in queste parole feticcio si manifesti un’assoluta e totale domanda di normalità. Quasi che, come in realtà è, gli eccessi conclamati e normalizzati, per cui ad esempio tutto è ormai eccezionale, straordinario, ma con tendenza a lievitare ( se è vero, per fare due esempi, che super internet è diventato anche unlimited, come il gelato Magnum che ha aggiunto “Infinity”), alimentassero nello stesso tempo una grande voglia di normalità. E qui la conferma viene proprio dalla parola sobrietà, il cui abuso (verbale) è inversamente proporzionale alla sua scarsità reale. Soprattutto in politica dove, quanto più la scoperta di malaffare e truffe si intensifica e allarga a tutti gli schieramenti, tanto più l’invocazione di partiti e leader sobri si impone e avanza sulla stampa come nel senso comune. Tutti però dimentichi che, alla lettera, è sobrio chi non beve. E dunque la massima rivendicazione (politica) s’applica a quel che dovrebbe essere ( ed è ) il minimo. Anche se non ne abbiamo più contezza. Cioè una precondizione, ben prima e ben più che una qualità intrinseca o una caratteristica da esaltare. E’ così che la richiesta di politici “sobri” prima che “tecnici”, ossia competenti, ( altro prerequisito, se vivessimo tempi davvero normali) indirettamente conferma che la situazione attuale del paese continua a essere straordinaria, compromessa e ad alto rischio. Se va avanti così, presto insostenibile.
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