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Come pensiamo la natura? La risposta dell’antropologo Staid

Come pensiamo la natura? La risposta dell’antropologo Staid

di Sabia Braccia

Nel discorso sul riscaldamento globale, l’inquinamento e la transizione ecologica spesso vengono citati la decrescita o modelli economici diversi da quelli finora applicati. Meno frequente è invece l’analisi antropologica sulle nostre concezioni, su come e quando si sono sviluppate, sulle loro conseguenze e sulla tradizionale opposizione natura/cultura caratterizzante il pensiero occidentale. Il festival di antropologia del contemporaneo dei Dialoghi di Pistoia (26-28 maggio 2023), ideato e diretto da Giulia Cogoli, riflette ogni anno su un tema diverso e in questa XIV edizione affronta l’argomento Umani e non umani. Noi siamo natura, come avevamo già annunciato, per sollevare proprio queste questioni. L’idea di base degli organizzatori è quella di «offrire a chi partecipa nuovi sguardi sulle società umane, ponendo a confronto esperti di diversi ambiti in un colloquio che attraversi i confini disciplinari e proponga letture inedite del mondo che ci circonda». Ultimamente la dicotomia natura/cultura è stata messa in discussione dalla crisi climatica, per cui oggi si sta diffondendo una visione “relazionale” del mondo vivente che analizza l’uomo soprattutto nella sua interdipendenza con le altre specie del Pianeta.

«Animali e piante possono essere soggetto di diritti?» e «Come pensano l’ambiente e la relazione con i non-umani società diverse dalla nostra?» sono alcuni degli interrogativi posti dalla stessa Giulia Cogoli cui una lezione dell’antropologo e docente universitario Andrea Staid, tenutasi venerdì 24 marzo al Teatro Bolognini ad anticipazione del festival, ha tentato di rispondere. Il suo intervento, Cosa significa sentirsi parte della natura? Uno sguardo antropologico ha illustrato anche alcuni temi del suo libro Essere natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente, da poco uscito nella serie di libri dei Dialoghi edita da UTET.

La desoggettivizzazione del vivente

Nella visione antropocentrica, caratteristica del mondo occidentale, riesce difficile immaginare animali e piante, come soggetti godenti di diritti perché essi vengono pensati come oggetti. Da Aristotele, a Cartesio, ad altri grandi pensatori occidentali si è formata l’idea che l’uomo sia al di sopra della natura, che non ne sia parte integrante e che la possa dominare. In questo modo ogni manifestazione naturale è percepita come oggetto, magari di conoscenza, di dominio o di utilizzo ma non come soggettualità con la quale porsi in una relazione alla pari. Questa tendenza alla desoggettivizzazione del vivente porta proprio al dualismo natura/cultura che caratterizza la nostra società. Altre popolazioni hanno una diversa visione cosmologica; ci sono società che sentono di condividere l’unione della vita con altri soggetti viventi con i quali si pongono in relazione non gerarchica. Un maori della Nuova Zelanda per esempio, crede che camminando sulla Terra stia “ferendo” il dio della foresta e degli uccelli Tane quindi cerca di rendere la sua impronta meno “pesante” e “cruenta” possibile; allo stesso modo crede che tagliando alberi o mangiando uccelli stia nutrendosi dei suoi antenati perché per lui tutto l’universo è una grande famiglia che discende dagli stessi antenati. Immaginare un dio come una montagna, un fiume, una foresta porta a intraprendere con l’ambiente e l’elemento naturale una relazione più rispettosa e meno predatoria, perché in quell’elemento naturale si riconosce una sacralità condivisa. Andrea Staid passa poi ad analizzare i quattro possibili modi di relazionarsi con il cosmo e con il vivente individuati da Philippe Descola nel suo Oltre natura e cultura per mostrare altri possibili approcci umani al non umano (animista, totemista, naturalista, analogico).

Andrea Staid

È stata soprattutto la colonizzazione a soppiantare parte delle visioni cosmologiche non antropocentriche perché ha portato con sé la possibilità di vedere nell’elemento naturale (come una montagna per esempio) un bacino di risorse da utilizzare per accrescere il benessere umano (metalli estratti dalla roccia, ecc) e non una soggettività con la quale entrare in relazione. L’incontro/scontro fra civiltà derivato dalla colonizzazione ha favorito –  spesso forzatamente – che questa concezione si espandesse anche fuori dal continente europeo.

Entrata in crisi con l’uscita de L’origine delle specie e la teoria evoluzionista di Darwin che faceva discendere umani e alcuni non umani dagli stessi antenati, la visione antropocentrica fatica a tenere saldi i suoi punti con la crisi climatica attualmente in atto. Oggi sappiamo bene che ogni attività umana ha un impatto ben preciso; che nella filiera produttiva, nella pianificazione urbana, nel nostro agire quotidiano siamo circondati da un non umano in perenne interconnessione con l’umano. Per questo un modello di vita più ecologico, basato sulla riduzione dei consumi e degli scarti, sulla condivisione di risorse e servizi (come i mezzi di trasporto pubblico, per esempio), sul contenimento delle emissioni, non deve necessariamente essere pensato come rinuncia ma come possibilità; possibilità di aprirsi magari anche a diversi modi di pensare il non umano, magari considerare gli alberi di un parco cittadino come “abitanti” della città in quanto soggetti che creano relazioni con gli altri abitanti di quel contesto (animali, insetti, umani…).

Riflettere su questi temi è oggi più che mai necessario così come un’analisi antropologica sull’evoluzione delle nostre visioni cosmologiche non può che aiutare nell’elaborazione di modelli di vita maggiormente sostenibili.

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