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Patagonia: marchio sostenibile, o no?

Patagonia: marchio sostenibile, o no?

Di Serena Caminati

Dall’indagine giornalistica Follow the Money è emerso, come il noto marchio di moda, Patagonia, da sempre impegnato nella sostenibilità, sia nella realtà molto simile alle principali industrie di Fast Fashion, come Primark.

Come si definisce il brand

Il brand Patagonia, si presenta come impresa attivista, attenta all’ambiente e al rispetto delle persone, tanto da aver istituito un codice di condotta per la scelta dei fornitori, oltre ad aver preso un idea rivoluzionaria. Nel settembre del 2022, infatti, la famosa società statunitense, valutata circa 3 miliardi di dollari, decise di cedere l’intera azienda ad un fondo ad hoc per un’organizzazione no profit, chiamata Holdfast Collective, L’annuncio fece scalpore e molti siti autorevoli tra cui il il New York Times, riportarono la notizia e intervistarono Yvon Chouinard l’83 alpinista possessore dell’azienda, il quale dichiarò, l’obiettivo della vendita, garantire che tutti i profitti, circa 100 milioni di dollari l’anno, vengano utilizzati per combattere il cambiamento climatico.

«Siamo convinti che la crisi ambientale abbia raggiunto un punto di svolta fondamentale. Se non vengono messe in pratica delle misure volte a ridurre le emissioni di gas a effetto serra, a difendere l’acqua e l’aria pulita e a disinvestire dalle tecnologie “sporche”, l’umanità nel suo complesso distruggerà la capacità di autoriparazione del nostro Pianeta»

L’inchiesta di Follow The Money

Patagonia però sembra nascondere qualcosa di oscuro, secondo l’inchiesta promossa dalla giornalista Yard Van Heugten all’interno delle filiere avvengono numerose violazioni e il brand sembra non avere controlli adeguati, l’azienda avrebbe, infatti da rispettare numerosi criteri etici e sostenibili. L’inchiesta partita in una delle numerose fabbriche dello Sri Lanka, ha evidenziato come, le aziende utilizzate da Patagonia nei paesi in via di sviluppo, siano le stesse delle principali catene di Fast Fashion, famose per le condizioni di sfruttamento dei lavoratori. Da quanto è emerso gli impiegati dei fornitori di Patagonia, lavorano, superando le 17 ore giornaliere, causando gravi danni fisici e psicologici. Priya una lavoratrice di MAS Shadowline uno dei fornitori del marchio, ha ammesso il crudele trattamento riservato ai dipendenti: 

 “Il manager del mio supervisore è un uomo terribile. Tocca tutti in malo modo, e se dici che non lo vuoi, hai un problema. Mi urla se devo andare in banca o dal dottore. “Allora chi farà il lavoro? Chi raggiungerà l’obiettivo? E non è l’unico. Ci parlano come se fossimo animali.” 

Anche Ashila Niroshine Dandeniya, lavoratrice e sindacalista ha affermato, come a causa della crisi, sempre più lavoratori ricorrono all’utilizzo di droghe, per lavorare più velocemente e per non sentire la fame.

Le infrazioni da parte del brand non sono nuove, già in passato la Fair Labor Association nel 2016 aveva individuato dozzine di violazioni tra cui l’assenza di registrazione dell’età dei dipendenti, che permetteva ai minorenni di lavorare, e la paga non idonea agli standard, meno di  21.000 rupie, ovvero 66 euro al mese, oltre al divieto delle dipendenti di rimanere incinte nei primi sei mesi di lavoro.

La risposta alle accuse 

A seguito dell’inchiesta e della pubblicazione dell’articolo di Ohga, uscito il 26 giugno 2023, Patagonia si è difesa annunciando:

“I nostri auditor hanno condotto rigorose indagini sul posto nel corso degli ultimi mesi e non hanno trovato nessuna evidenza che possa confermare le dichiarazioni contenute nei recenti articoli apparsi sui media. Nello specifico, presso Regal Image e Shadowline, non è emersa nessuna evidenza e non sono stati riportati dai lavoratori casi di, uso di droghe, straordinari oltre le 60 ore, straordinari non pagati, repressione antisindacale o molestie verbali”.

Il marchio si è liberato da tutte le accuse, ma le ombre sulla sua attività sono rimaste, nonostante abbia annunciato di voler continuare a migliorare il suo impatto ambientale.

 

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